I partigiani non c’erano (Dalia edizioni, 2015) è un romanzo storico di Germano Rubbi, attore, regista e autore teatrale di origine ternana. Il romanzo, che prende le mosse da un fatto realmente accaduto, e che si avvale di testimonianze dei presenti e di documenti ufficiali, si concentra sul massacro di sedici persone avvenuto il 13 aprile 1944 nella cittadina di Calvi dell’Umbria per mano di un gruppo di SS.
Ma i partigiani non c’erano veramente
Nei primi due capitoli (di sette, escluso l’epilogo), “L’attesa” e “Gli amici”, Rubbi presenta i protagonisti della storia, asserragliati in quel piccolo territorio montuoso compreso fra Calvi dell’Umbria, Santa Maria in Neve e il monte San Pancrazio. Ufficialmente le fazioni sono tre: i fascisti, i nazisti delle SS, i partigiani. Fra i primi troviamo: il podestà di Calvi, Sandro Simoneschi, iscritto al partito fascista ma idealmente lontano dal regime; l’integerrimo colonnello Giulio Fantini e il “fascistissimo” (e violento) figlio Valerio, che ricopre il ruolo di sergente; Bruno Pitari, capo delle camicie nere di Calvi.
Fra le SS troviamo invece: il maggiore Wilcke, comandante del 1° battaglione del 20° reggimento SS Polizei, intenzionato a far bella figura (oltre che carriera), e che arriverà proprio a dirigere il massacro del 13 aprile; il “non-nazista” caporale Hans Snüwart, amico del ragazzino calvese Renato.
Abbiamo infine i partigiani, capeggiati dal comandante Martini e dal suo secondo, Veleno; ma qui protagonista indiscusso è Renzo Zara, noto a tutti come Zazzo, uno scout che conosce le montagne intorno a Calvi come se fosse casa sua. Il suo carisma eclissa completamente le altre figure che ruotano intorno al suo fianco.
Ecco: presentato il piccolissimo teatro d’azione (Calvi e le sue montagne), il periodo storico (l’ultimo periodo della seconda guerra mondiale) e i protagonisti (fascisti, SS, partigiani, civili), non si può non immaginare il percorso verso l’eccidio del 13 aprile 1944.
Dopo aver disposto abilmente i pezzi sulla scacchiera, il romanzo si sovraccarica di tensione attraverso rancori e inimicizie, come quella fra il fascistissimo trio Pitari-Fantini senior-Fantini junior e il ben più popolare podestà Simoneschi. Non da meno è poi la questione di fedeltà e appartenenza a ideali diversi: parliamo qui ovviamente del “gioco a tre” fra partigiani, fascisti ed SS, con gli ultimi due virtualmente dalla stessa parte contro i primi; diciamo virtualmente perché è risaputo come gli ufficiali delle SS considerassero quelli fascisti, al punto che, durante un incontro fra il colonnello Fantini e il capitano Weber, «Fantini aveva accolto l’ufficiale con il garbo che la sua posizione gli imponeva, ma in realtà provava non poco fastidio nel dover riconoscere che un semplice capitano tedesco si poteva permettere di trattare un colonnello fascista come un suo sottoposto».
La bomba caricata con maestria nei primi capitoli esplode infine nei capitoli V e VI: dopo il parziale fiasco di mercoledì 12 aprile, tutta la tensione accumulata sfocia nella piazza di Calvi, nel massacro di sedici innocenti per mano di un gruppo di “sbandati” delle SS. Perché, come si dice nell’epilogo, «i partigiani a Calvi non c’erano».
Relativismo morale
Abbiamo detto che le fazioni sono tre (quattro, se contiamo i civili che, però, ricoprono ben poca parte all’interno del grande teatro), ma “buoni” e “cattivi” sono presenti in tutte le fazioni, per cui si arriva a empatizzare facilmente anche con alcuni personaggi delle SS e del fascio. Abbiamo infatti a che fare, oltre che con dei fanatici come Valerio Fantini e il maggiore Wilcke, con individui che si sono trovati coinvolti nel corso degli eventi: chi per necessità, come il podestà Simoneschi; chi per obblighi morali, come il caporale Hans. Il talento di Germano Rubbi è nel saper presentare non ruoli piatti (il fascista cattivo, il partigiano buono), bensì personaggi a tutto tondo.
Impossibile, ovviamente, giustificare un massacro (e lungi da noi è il volerci anche provare), tuttavia a volte è necessario compiere uno sforzo per entrare nella mente di chi, mentre compiva un’azione orribile e disumana, era convinto di essere nel giusto. Non si può non provare compassione per Hans quando, alla fine, dà l’ultimo saluto al suo amico Renato. Nello scambio di cioccolato che lì avviene si ritrova un gesto di “quasi perdono” che il ragazzino rivolge al soldato; un perdono che non può avvenire completamente perché, almeno nominalmente, Hans è un soldato tedesco che ha visto il massacro di Calvi dell’aprile del ’44.
In chiusura, infine, è bene parlare del dopo. Di ciò che avviene dopo un grande evento come la seconda guerra mondiale. Simoneschi è a passeggio con la moglie, ormai semplice impiegato comunale; qui rivede il suo nemico Giulio Fantini «avanza[…] da solo, con lo sguardo a terra», terribilmente invecchiato, quasi spaurito. Fra i due avviene questo indimenticabile dialogo:
“Io… posso chiedere il vostro nome?”
I due rimasero in silenzio, fissandosi negli occhi. La confusione, la gente, i negozi, le luci, tutto svanì.
“Ed io posso chiedervi perché volete saperlo?”
“Perché, non vorrei sbagliarmi, ma voi somigliate molto a una persona che ho conosciuto diversi anni fa.”
“Impossibile. Io, diversi anni fa, non esistevo, come, probabilmente, non esistevate nemmeno voi. Non esisteva nessuno. Comunque mi chiamo Leonelli Alvaro e non credo di avervi mai visto prima d’ora.”
Un consiglio di lettura per tutti quelli che vogliono approfondire il concetto di “quasi perdono” in relazione ai gerarchi nazisti: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme di Hannah Arendt.