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E sarebbero giornalisti? Il giornalismo televisivo e il contraddittorio nullo

Siamo in una fase in cui ancora una larga parte della popolazione, forse più che larga, accede alle informazioni tramite la televisione. Chiunque tuttavia sa che la vera informazione è neutra, obiettiva, o può perlomeno tentare di esserlo, e lo è nel momento in cui la sua vicinanza al fatto è il più possibile effettiva. Nel caso dell’informazione televisiva (giornalismo televisivo) l’informazione è gestita da qualcuno, i giornalisti appunto, e indirizzato a qualcun altro, il pubblico. Il potere risiede nelle mani di chi gestisce l’informazione; è sempre stato così, ma oggi si assiste ad un’involuzione.

Se prima la distorsione dei fatti in nome di una rappresentazione ideologica, di qualsiasi colore politico essa fosse, avveniva attraverso un intervento diretto del giornalismo, ora il giornalismo televisivo italiano sembra aver lasciato questo ingrato compito a più che felici politici, contenti e ormai abituati ad avere dei porta-microfono davanti. In quasi tutti i talk show televisivi, ripeto quasi tutti, da Ballarò, a Di martedì, a Matrix, a In onda, si assiste ad un finto contraddittorio, anche se la scena apparentemente è la stessa di quando esso sussisteva effettivamente: c’è un conduttore (un giornalista) e gli ospiti, politici o commentatori di qualsiasi specie (soprattutto incompetenti, come spesso i politici del resto, senza voler cadere nel sono tutti uguali, etc…). Ora, si assiste al fatto che un ospite dica qualcosa e per sostenerla citi dei dati, ma li cita e basta, non ha dei fogli da far controllare al conduttore, che lo mostrino onesto nel riportarli; l’altro ospite, del fronte avverso, cita altri dati da altre fonti altrettanto autorevoli, e il pubblico a casa, spaesato, riconoscendo autorevolezza ad entrambe le fonti – che sono autorevoli o appaiono tali a causa del meccanismo psicologico, che riconosce valore ad un nome di per sé “pesante” come il termine fonte, che evoca competenza tecnica – si ritrova a credere che le cose presentino una doppia verità, come quella kantiana, l’antinomia, ovvero due affermazioni, entrambe vere o presunte vere, ma al tempo stesso in contraddizione tra loro.

Come capire quale sia vera? Semplice, penserebbe uno spettatore di buon senso, c’è il conduttore, che dovrebbe essere un giornalista, cioè un esploratore e conoscitore di fatti, che tira le somme di quanto detto e ha l’ultima parola nel dire chi dei due sta dicendo la cosa corretta, o perlomeno la più corretta, analizzando quali elementi siano veri dell’affermazione dell’uno, e quali in quella dell’altro.

Qui è il vero colpo di scena… non lo fa! E non lo fa per diverse ragioni, a sua volta producendo diversi effetti. La prima ragione è quella più deprimente, cioè neanche il giornalista sa qual è la verità, perché non si è premurato di cercarla, è entrato nell’ottica di condurre un programma, che lui traduce con condurre un gruppo (meglio dire circo) di ospiti: è diventato un gestore del personale, non un capofila nella ricerca del vero fatto e della vera informazione. Questa realtà la si desume dal fatto che il non intervento dei giornalisti nel correggere certe assurdità dette dagli ospiti è talmente ripetuto, da far dedurre appunto che lui non si accorga che sono assurdità. Inoltre ha capito che la logica televisiva è che i soldi, in un programma di informazione, non li portano le informazioni, né il conduttore, ma gli ospiti: più loro dicono cose provocatorie, false, ma suggestive, più appassionano il pubblico: per questo uno Sgarbi continua ad essere invitato, nonostante intervalli la sua competenza artistica con vomiti di insulti e intemperanze caratteriali ampiamente oltrepassanti il fossato dell’ingiuria personale (cit. capra, imbecille, per dire i più lievi).

Ovviamente questo tipo di interventi non corretti dal conduttore generano e trasformano il pubblico a casa in un pubblico ormai assuefatto alla realtà che il programma di informazione non serva ad informare, ma a distrarre, quasi fosse un fiction comica (e le somiglianze in effetti sono molte). Diventa un pubblico poco attaccato al vero, e lo si vede già dal pubblico in studio, che è una categoria ormai a parte, che vive nel limbo televisivo, quello dell’esserci, ma di non contare, di emettere rumori, emettere appunto, come il battito di mani: in una logica sensata esprimerebbe assenso, mentre il non battere a certe affermazione esprimerebbe dissenso, ma il pubblico in studio, questi nuovi esseri televisivi, battono sempre le mani;ad esempio lo stesso numero e le stesse persone, che battono le mani all’opinione dell’ospite A, ripeto, non solo lo stesso numero di persone (che potrebbe essere il restante 50%, che prima non aveva battuto), ma proprio le stesse persone, battono le mani anche all’opinione assolutamente contraria dell’ospite B, il tutto per esaltare con uno zelo,che va oltre quello richiesto nel momento della chiamata a pubblico televisivo, l’ospite opinionista che, così appagato nel suo poter dire qualsiasi cosa, si sente incoraggiato a  ritornare per altre puntate e ad esagerare nelle assurdità ancora di più. Quale ospite, che fa aumentare lo share, potrebbe mai essere limitato nei suoi sproloqui, addirittura contraddetto? Si offenderebbe, non tornerebbe, e allora addio share e forse addio programma (come se perdere un programma di informazione, che non faccia informazione, fosse una cosa spiacevole).

Ovviamente il tappeto rosso steso dal battito di mani onnipresente e onniassordante e dal silenzio complice e compiaciuto del conduttore spinge, con un effetto di ritorno, a trasformare l’ospite stesso, che ora si convince di poter diventare non più solo un’opinionista, ma un eroe dell’opinione, un vero dispensatore di verità, un profeta, riducendosi in realtà a quelle vecchie della canzone di De André, Bocca di rosa:

Si sa che la gente dà buoni consigli
Sentendosi come Gesù nel tempio
Si sa che la gente dà buoni consigli
Se non può più dare cattivo esempio

Così una vecchia mai stata moglie
Senza mai figli, senza più voglie
Si prese la briga e di certo il gusto
Di dare a tutte il consiglio giusto

Questo effetto di ritorno finché trasforma i politici, ha, pur assurdamente, una sua comprensibilità, ma coinvolge gli stessi ospiti giornalisti e in alcuni casi i conduttori. Senza necessità, né volontà di schierarsi politicamente contro un giornalista di una certa corrente, piuttosto che di un’altra, credo che tutto ciò esprima al massimo il divismo patologico degli artisti del dire nulla, ma non esserne neppure più coscienti, come se, ormai invidiosi dell’immensa libertà del dire tutto e il contrario di tutto concessa agli ospiti, ne volessero anche loro.

Che immagine della democrazia esce da questa realtà giornalistica? La democrazia è sì, e giustamente, aggiungerei sacralmente, il diritto di tutti di dire tutto, ma far valere questo diritto non annulla il diritto dello spettatore di essere informato correttamente e dunque il diritto di aspettarsi dal conduttore e da un qualsiasi giornalista, in quanto persona neutra e informata, che filtri lui quello che il politico afferma. Tanto varrebbe altrimenti andare direttamente ad un comizio di quel politico, se il giornalista regge solo il microfono, tanto varrebbe far condurre il programma al politico, se il programma stesso non cerca, perché non crede più che i fatti siano in sé unici e quindi vadano riportati per come sono. La democrazia deve essere democrazia della consapevolezza. La consapevolezza non è data solo dalla libertà di accesso all’informazione, ma da una classe giornalistica ingrado di esprimerla in modo obiettivo, a costo di contraddire il potente, lo share, o la propria patologica relazione con il proprio narcisismo televisivo. Spesso in Italia si confonde il cercare l’informazione più vera, con l’accettare l’informazione che piace di più. Li chiamerei gli informatori della pancia, solleticatori professionisti del gusto, auto-trasformatisi in protagonisti e non veri conduttori dei veri protagonisti, che siamo noi, la popolazione, e loro, i nostri rappresentanti politici. La contraddizione è un diritto di chi riceve l’informazione, e un dovere del giornalista di attuarla laddove necessario.

Ridateci un vero giornalismo e con esso la democrazia. O fatevi daparte.

About Andrea Forte

Sono Andrea Forte, 28 anni, di cui alcuni passati a laurearmi in filosofia e a scrivere; e forse scrivere è il mio vero modo di fare ricerca filosofica. Ho già pubblicato alcuni romanzi brevi, tra cui Il ballo dell’immobilità, Un uomo lontano, Sopravvivere, e alcuni racconti sono pubblicati in antologie di concorsi, a cui ho partecipato.

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