E’ morto un rivoluzionario, non è morto un attore. La prova regina è quella che nell’ora dell’addio vede prolificarsi le controfigure del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, avide di accaparrarsi le spoglie del più coriaceo alfiere del politicamente scorretto, il cittadino Paolo Villaggio mai omologato nonostante il colossale successo e antidoto permanente alla deriva del Belpaese nel socialismo reale dello spettacolo. Dunque bando ai piagnistei e alle lugubri cerimonie a cura del CRAI (Comitato rivalutazioni approvate dagli intellettuali) perché se n’è andato un uomo buono, ma resta per sempre il cronista implacabile di ciò che di più disilluso e rabbioso alligna dentro di noi.
Naturalmente il genovese classe 1932 Villaggio non è stato solo la quintessenza della nullità sociale incarnata nelle maschere di Fantozzi o Fracchia, bensì un professionista curioso e versatile, cresciuto nel sodalizio con Fabrizio De André, maturato come Enzo Tortora e Carmelo Bene nel laboratorio della compagnia teatrale Baistrocchi e lanciato come cabarettista dal mitico Derby Club di Milano. Apparso sul grande schermo alla fine degli anni Sessanta, sabota da subito il ruolo da caratterista ritagliandosi nella magmatica evoluzione della commedia all’italiana uno spazio tutto suo, quello, appunto, di un Franti della comicità, un kamikaze del sarcasmo, un paradosso animato non a caso consono alle scariche di cinismo care a registi-contro come Monicelli, Salce, Ferreri. Una delle cantonate che adesso viaggiano (propalate purtroppo anche dall’ambito familiare) sull’onda delle commemorazioni è quella di una carriera che sarebbe stata sperperata nella routine commerciale e riscattata solo dall’intervento in extremis dei Fellini (“La voce della Luna”) e degli Olmi (“Il segreto del bosco vecchio”): a questo proposito quanto ci piacerebbe avere registrato qualcuna delle esilaranti dissacrazioni del culto cieco e acritico concesso ai film “autoriali” che abbiamo ascoltato dalla sua viva voce nel corso di una premiazione o di un festival…
L’esordio cinematografico del ragioniere prototipo dei tapini risale alla Pasqua del ’75 anche se il personaggio era nato sino dal Sessantotto quasi come una nemesi del contenutismo fanatico eretto a misura di qualsiasi attività umana e quindi anche di quella catartica della rappresentazione. L’aggettivo “fantozziano”, già entrato nel vocabolario italiano grazie alla raccolta di monologhi edita da Rizzoli, si materializza tuttavia sullo schermo in una sorta di teogonia grottesca alla Gogol, un incubo più realistico del reale, una galleria di mostri che fa impallidire quella dei Gassman, Sordi e Tognazzi: Filini, la signorina Silvani, Calboni, il Megadirettore galattico e il focolare domestico delle Pina e Mariangela icone da horror tramandano per le generazioni a venire una sorta di represso, sguaiato, tragico urlo di ribellione contro i miraggi di felicità che il darwinismo sociale concretizza sempre e solo per i più astuti e i più brutali.
Perseguitato, torturato, deformato, persino geneticamente modificato eppure indistruttibile come un cartoon, Fantozzi-Villaggio, erede dei sublimi perdenti come Chaplin e Totò, è il capro espiatorio per eccellenza dell’eterno divario tra oppressi e oppressori perpetuatosi nella babele in tutti i sensi sgrammaticata di fine Novecento. I David, i Nastri, i Pardi e persino il Leone d’oro non l’hanno addomesticato né piegato alla dittatura del salvazionismo buonista e, a dirla tutta, non convince neppure la teoria dell’abbandono finale da parte della cupola di Cinecittà.
Come si può pensare, infatti, a una sorta di mutua professionale dovuta a un anarchico inveterato, un incazzato permanente, a colui che alla maniera di Bukowski o Philip Dick ha avuto il fegato di pubblicare libri intitolati “ Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda” oppure “Pillole di saggezza di una vecchia carogna”? Se lo abbiamo amato davvero e continueremo ad amarlo basta immaginarlo in quel Paradiso che sullo schermo ha già frequentato finalmente libero di sfuggire al capestro delle gite aziendali, di vedersi la partita in tv a rutto libero, d’ingozzarsi quattro chili di cozze crude o di gustarsi in santa pace “Le casalingue” (rassicurando la Pina come un dotto cinefilo che così si fa nei film impegnati).
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