I due romanzi dell’autore francese André Gide hanno la forza simbolica di un manifesto sulla (mancata) libertà di essere se stessi, nonostante i falsi miti propagandati dalle società d’ogni tempo.
L’immoralista (1902) e La porta stretta (1909) di André Gide sono due romanzi gemelli che vanno letti insieme per essere compresi singolarmente. La loro gemellarità emerge solo nella ossatura delle storie: in entrambe il protagonista tenta di realizzarsi abbracciando un percorso di purificazione. Ne L’Immoralista, Michel, colto parigino, dopo essere guarito da una malattia abbastanza puritana (o comunque conservatrice) come la tisi, sente dentro di sé il germe dell’immoralismo e comincia ad assecondarlo. Questo tra le altre cose lo spingerà a rifiutare la sua vita precedente, ad abiurare l’amore per la storia e per l’accademia che rappresentano ai suoi occhi delle trappole per il vero sentire. Il percorso di “purificazione” di sapore Nietzschiano porterà Michel fin nella palude della pedofilia; tutto questo immoralismo alla fine non sarà stato gratuito: la giovane moglie Marceline, della quale il libro racconta l’itinerante viaggio di nozze con Michel, si spegnerà lentamente all’ombra dell’egocentrismo del marito.
La porta stretta invece è qualcosa di più che una composita metafora di moralismo religioso: in esso vegetano emozioni che vengono cannibalizzate dai sentimenti religioni, ma in definitiva è uno straordinario romanzo d’amore. “La porta stretta” è quella che il vangelo di Luca indica come la difficile strada da seguire per giungere a Dio. Jerome, l’io narrante, che ricorda il giovane André, è un adolescente innamorato della cugina Alissa, di poco più grande di lui, che ricambia totalmente. Tuttavia per alcune dolorose circostanze familiari, Alissa sceglie di prendere la strada della porta stretta e quindi vorrà privarsi dell’amore di Jerome per permettere a quest’ultimo di arrivare a Dio senza che venga distratto da un amore carnale. Questa strada sarà talmente stretta che alla fine Alissa vi rimarrà stritolata in mezzo, morendo da sola e lasciando un diario che farà capire al povero Jerome il senso di quella assurda rinuncia.
Se il primo romanzo è forse più efficace per espiantarne un modello di immoralismo, il secondo è di gran lunga più coinvolgente. Ci si immerge nella storia di Alissa e se ne esce affannati, rattristati; difficile comunque non amarla. Al di là del motivo religioso comunemente inteso, per Alissa, si intuisce che Dio è la felicità differita: per questo in qualche modo il non voler concretizzare l’amore con Jerome, non è un tradimento verso il cugino, ma la massima fedeltà alla perfezione di quella storia, fatta di sguardi, epistole e tanta fertile distanza. Forse a coinvolgere il lettore e a rendere i sentimenti così macroscopici è proprio il fatto che nella storia tutto sia potenziale: a un attimo dalla felicità con l’ostinata volontà di non toccarla mai.
Il vero filo conduttore tra le due storie, saggiamente unite nel volumetto Garzanti, è nel concetto che così è riassunto dallo stesso Gide: “Sapersi liberare non è niente: il difficile è saper essere liberi” come a voler dire che la liberazione da un modo di vivere non per forza dà accesso a una libertà. L’immoralista non si libera dopo aver rifiutato la vita contraffatta dal decoro e dalla cultura, ma semplicemente diventa assertore di un’altra dottrina come fa notare l’autore per bocca di Marceline: “comprendo appieno la tua dottrina, perché ormai si tratta di una dottrina. È bella, ma sopprime i deboli”. Allo stesso modo Alissa segue la santità come se fosse ipnotizzata perché, come nel caso di Michel, “ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso; ognuno si costruisce un modello, poi lo imita; (…) si ricorre all’imitazione, pretendendo così di amare la vita”.
Questi due racconti sono un sottile manifesto sulla libertà di essere, un manifesto che non professa nulla, che non proscrive avversari e che men che mai offre soluzioni, in ultima analisi sono un manifesto neutrale al limite dell’indecisione. Gide, come tutti coloro che si imbattono nei problemi della libertà con intelligenza, non vuole dimostrare nulla, come avverte nella prefazione: “Offro questo libro per quello che vale. È un frutto pieno di cenere amara, simile alle coloquintidi del deserto che crescono in luoghi arroventati dal sole e fanno sentire a chi ha sete un’arsura più atroce, ma che sulla sabbia d’oro non sono prive di bellezza”.