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Geopolitica: la reale natura del conflitto nello Yemen

Il geografo svedese Rudolf Kjellen fu abile nell’individuare nella dicotomia occidente/oriente uno dei pilastri portanti del pensiero geopolitico. Da molti considerato come il padre fondatore di questa disciplina, Kjellen, non negando la derivazione della stessa dalla geografia sacra, vedeva nell’idea di Occidente un mondo orientato indiscutibilmente verso il progresso senza limiti; mentre nell’Oriente riconosceva degli istinti primordiali votati alla contemplazione, ad una visione maggiormente pessimistica della vita ed al rispetto delle tradizioni. Questa dicotomia geopolitica può essere la prima chiave di lettura dialettica attraverso la quale interpretare il conflitto nello Yemen come lo scontro tra una modernità che tutto ingloba in nome di una forma mentis nichilistica in cui l’unica verità assoluta è il profitto economico e delle forze, ancorate alla tradizione, che percepiscono come imposta ed estranea alla loro cultura la negazione dell’ordine metafisico e la scissione stessa tra questo e l’ordine fisico.

E sempre la geopolitica attraverso un’altra dicotomia classica, quella tra terra e mare, può fornire un’altra interessante possibilità di interpretazione del conflitto yemenita. Non è infatti un caso se sono stati i mercanti sunniti di scuola shafi’ita (una delle quattro scuole giuridiche ortodosse dell’Islam sunnita) che vivevano nella fascia costiera del paese ad essere maggiormente influenzati dalla cultura occidentale arrivata attraverso il colonialismo britannico. Di fatto, furono loro verso la metà del secolo scorso a spingere per una maggiore apertura dello Yemen verso il mondo rispetto alla popolazione delle montagne e degli altopiani maggiormente legata all’imamato zaidita e alla sua tradizionale struttura di potere. La principale preoccupazione dell’Imam Yahya, al potere fino al 1948, era proprio quella di mantenere il paese immune da una penetrazione culturale straniera che riteneva perniciosa e potenzialmente destabilizzante. Dunque, lo scontro attuale può anche essere interpretato come lotta tra città e campagna: tra una città aperta all’innovazione e anche ai più deleteri esiti della modernità e una campagna ancora legata a sistemi di produzione e distribuzione tradizionali. Non è un caso se i primi atti di ribellione degli Houthi sono stati causati dalla politica filoamericana e di connivenza con il salafismo introdotto nel paese dai sauditi del presidente Saleh e dal totale disinteresse del potere centrale per le aree rurali e montuose del nord del paese da cui proviene proprio il nucleo storico del clan famigliare degli Houthi.

Ma la geopolitica aiuta a comprendere anche i fatti successivi alla fine dell’imamato nel 1962. È stato lo studioso statunitense Nicholas Spykman ad individuare, in parziale opposizione alla teoria dell’Heartland di Halford Mackinder, nel controllo del Rimland (la fascia costiera del continente eurasiatico) il principio cardine sul quale fondare il sistema di dominio talassocratico del globo da parte della potenza nordamericana. E proprio nello Yemen si trova uno snodo di cruciale importanza per l’attuazione di questo sistema di controllo: lo stretto di Bab el-Mandeb che collega il Mar Rosso ed il canale di Suez con l’Oceano Indiano. Ora, sin dagli anni Sessanta del Novecento, gli Stati Uniti hanno delegato ai sauditi, loro principali alleati regionali, ogni politica concernente lo Yemen. E di fatto, i sauditi, già protagonisti di un conflitto con l’imamato yemenita nei primi anni Trenta, dopo la morte dell’Imam Ahmad (figlio dell’Imam Yahya) non hanno mai del tutto abbandonato il paese.

Alcuni cenni storici a questo punto si rendono indispensabili. Senza tornare indietro fino alla storia delle mitica Regina di Saba, posseduta con l’inganno dal Re giudaico Salomone come ricorda il poema etiope La gloria dei Re, sarà opportuno ricordare che lo Yemen, con alterne fortune, è stato un imamato zaidita fin dal 911 dopo Cristo e che il potere temporale di questo Imam era riconosciuto anche dalla componente sunnita della popolazione. Gli zaiditi sono una corrente dell’Islam sciita che, a differenza della componente maggioritaria dello sciismo rappresentata dai duodecimani, riconosce la legittimità solo dei primi cinque Imam. Questa corrente infatti non riconosce come quinto Imam Muhammad al-Baqir (il “ricercatore che giunge all’essenza delle cose” secondo la tradizione duodecimana) ma il suo fratellastro Zayd che studiò presso Wasil ibn ‘Ata, il fondatore della scuola teologica neoplatonica del mutazilismo resa ideologia di Stato dal califfato abbaside nel IX secolo. Gli zaiditi rifiutano l’idea cardine dello sciismo dell’occultamento dell’Imam: una concezione che deriva dall’impossibilità per un Soggetto partecipe del divino di attestare con la sua presenza fisica alla rovina del mondo derivante dall’assenza di una cosmovisione metafisica. Egli, essendo portatore di una concezione dell’universo-mondo paradisiaco-polare rifiuta l’idea del paradiso perduto. Egli non è un soggetto esule come l’uomo, dunque si occulta e con esso viene ad occultarsi il paradiso stesso fino alla sua Parusia finale che condurrà alla vittoria sull’ingiustizia.

Questa concezione non viene accettata dalla dottrina zaidita perché la comunità non può rimanere priva di una guida. La dottrina zaidita si fonda infatti sul concetto di imamat al-mafdul: ovvero, la possibilità che l’imamato venga affidato anche ad una guida meno qualificata nel caso un individuo migliore non possa svolgere al momento tale funzione. Ciò giustificherebbe il fatto che Abu Bakr e Omar, ma non Othaman, abbiano scavalcato Ali, cugino e genero del Profeta, come guida della neonata comunità islamica nel momento della morte di quest’ultimo. Secondo questa dottrina chiunque discenda da Fatima (la figlia del Profeta) e dia vita ad una ribellione per ristabilire e difendere i principi dell’Islam può diventare Imam. Dunque la discendenza padre-figlio non è obbligatoria. Il primo Imam zaidita a guidare lo Yemen, infatti, non discendeva da Hussein ma da suo fratello Hassan. Inoltre, gli zaiditi, che enfatizzano un rapporto diretto col divino, sono assai vicini al sunnismo ed in ambito giuridico si rifanno alla scuola giuridica hanafita. Non è altresì da dimenticare che esistono diverse forme di zaidismo ed i jarudi, che prendono il nome dal teologo Sulayman ibn Jarir, paradossalmente i più vicini allo sciismo duodecimano iraniano, sono ad oggi quasi estinti nello Yemen,

Dunque, appare da subito evidente che ogni tentativo di presentare l’appoggio, più o meno presunto, dell’Iran al movimento Ansarullah (soccorritori o aiutanti di Dio) legato alla famiglia Houthi sulla base di un’affinità ideologica, religiosa e dogmatica è del tutto infondato. È abbastanza inappropriato anche parlare degli Houthi come alleati dell’Iran. Se non si può negare il sostegno e l’amicizia di Teheran, è altrettanto vero che tale sostegno è di natura più morale che materiale in senso stretto. Ad accomunare la Repubblica islamica con gli Houthi, forse, vi è semplicemente un’idea di rivoluzione che si attui nel pieno rispetto del reale significato di questo termine: ovvero, come re-evolvere, come moto che riporta all’indietro verso un punto di partenza attraverso il quale si neghi con forza quella negazione del sacro imposta dalla modernità occidentale. Il 1962 è l’anno chiave nella storia recente dello Yemen non solo perché sancisce la fine dell’imamato ma anche perché segna l’inizio dell’ingerenza saudita nei suoi affari interni a seguito del conflitto per procura con l’Egitto nasseriano nel più ampio contesto di quella che molti storici hanno definito la “guerra fredda araba”.

Di fatto, il presidente Nasser, partecipando attivamente al conflitto civile nello Yemen in sostegno dei nazionalisti repubblicani e modernisti percepiti come vicini all’ideologia nazionalsocialista in chiave araba da lui propugnata, compì un doppio errore tattico visto che privò l’esercito di preziose risorse fondamentali per il confronto con il principale nemico individuato in Israele e sostenne il cambio di regime in un paese che era già ampiamente schierato con la causa panaraba essendo stata l’unica nazione ad aderire nel 1958 al progetto della Repubblica araba unita proprio con l’Egitto e la Siria ed avendo inviato emissari sia alla Conferenza di Bandung del 1955 che a quella di Belgrado del 1961 dei paesi non allineati. Senza considerare il fatto che l’imamato aveva in più di un’occasione dimostrato la sua ostilità nei confronti dei sauditi portatori di quel wahhabismo percepito come assolutamente estraneo alle forme islamiche tradizionali. E non è da dimenticare che per tutti gli anni Venti e Trenta, l’imamato yemenita, nella prospettiva di combattere la presenza coloniale britannica ad Aden, aveva stretto legami d’amicizia con l’Italia fascista. Non si può dimenticare l’accoglienza che proprio l’Imam Yahya riservò al leggendario “Comandante Diavolo” Amedeo Guillet nel momento in cui questo, malato e isolato, fuggì nello Yemen dopo la sua instancabile guerriglia contro gli inglesi in Africa orientale nel 1941.

Nel momento della morte dell’Imam Ahmad fu paradossalmente l’Arabia Saudita, retaggio coloniale britannico, ad appoggiare il campo conservatore nella speranza di indebolire l’Egitto, che in quel preciso momento storico, con l’Iran alle prese con la fallimentare “Rivoluzione bianca” dello Shah, veniva identificato come il principale nemico da combattere. Il conflitto si concluse con un parziale compromesso nel 1967 dopo il disastro della cosiddetta “guerra dei sei giorni” che sancì il fallimento del progetto panarabo nasseriano. Ma il paese era già profondamente diviso tra un nord in cui l’influenza saudita diventerà sempre più consistente ed un sud satellite dell’URSS orientato verso una forma di marxismo-leninismo con slanci islamisti. La presidenza Saleh, iniziata senza grandi speranze di lunga vita nel 1978, ha segnato nel bene e soprattutto nel male la storia recente dello Yemen. Ancorato il paese all’Iraq di Saddam Hussein, lo Yemen di Saleh non aderì al Consiglio di Cooperazione del Golfo e non condannò l’intervento sovietico in Afghanistan, ma sostenne l’Iraq nella sua vigliacca aggressione all’Iran su procura saudita e nordamericana. E quando l’Iraq occupò militarmente il Kuwait come contropartita per l’ingente sforzo bellico sostenuto contro il paese degli ayatollah, Saleh non potè far altro che sostenere ancora una volta il regime baathista. Cosa che gli costò l’antipatia saudita e come ritorsione il rientro forzato di tutti i migranti economici yemeniti che avevano trovato lavoro in Arabia Saudita negli anni del boom petrolifero successivo al blocco del 1973.

Saleh è anche stato l’artefice della riunificazione del paese e sin dall’adozione della nuova costituzione nel 1994 con il suo il suo partito, il Congresso Generale del Popolo, ed in talune circostanze in combutta col partito islamista Islah, è rimasto saldamente ancorato al potere. Dopo l’11 settembre, come molti altri leader del mondo arabo ha ricercato l’appoggio occidentale con la pretesa di fungere da katechon contro il terrorismo qaidista estremamente attivo nello Yemen sin dal 2000 con il grave attentato al porto di Aden contro un cacciatorpediniere statunitense che costò la vita a 17 marinai. Tanto che nel 2010 il congresso USA ha stanziato la cifra di 150 milioni di dollari per combattere il terrorismo nello Yemen. Le rivolte scoppiate nel mondo arabo a seguito dell’infausto discorso del Cairo di Barack Obama nel 2009 non hanno risparmiato il paese che già nei primi anni duemila, dopo l’assassinio nel 2004 di Hussein al-Houthi da parte delle milizie governative, dovette affrontare in successione almeno dieci diverse operazioni militari del governo centrale contro la ribellione degli Houthi. Una ribellione che ancora una volta non può essere interpretata in chiave settaria visto che Saleh stesso era zaidita.

L’alleanza tra gli Houthi e Saleh, sancita in seguito dell’intervento saudita nel conflitto, che molti ha sorpreso, non può che essere letta esclusivamente in chiave strategica. Questa alleanza aveva il mero obiettivo di arrivare alla conquista della capitale Sana’a e procedere alla defenestrazione del presidente ad interim Abdrabbuh Mansour Hadi, eletto nel 2012 a seguito di un elezione in cui era l’unico candidato e con un mandato presidenziale di soli due anni poi prolungato di un altro anno nel 2014. Per questo ha poco senso parlare di “legittimo presidente yemenita” quando si fa riferimento ad Hadi che, tra l’altro, prima della sua ignominiosa fuga in Arabia Saudita, aveva rassegnato le dimissioni salvo poi essersi rimangiato la parola dichiarando il colpo di Stato ed il Supremo Consiglio Rivoluzionario posto a guida del paese dai ribelli Houthi come incostituzionali.

Non nuovo a voltafaccia e ad ambigui rapporti con i sauditi, Saleh ha sorpreso solo gli analisti meno attenti quando recentemente ha dichiarato di essere pronto (ancora una volta) a “voltare pagina”. E non sarebbe sorprendente se fosse stato pronto ad intavolare nuove trattative con i sauditi ed i loro epigoni nel momento stesso in cui è stato ucciso. I suoi rapporti con gli Houthi non sono mai stati idilliaci e già in settembre si parlò di una sua probabile messa in arresto da parte delle forze rivoluzionarie.

Di sicuro, la sua uccisione segna il passaggio ad una nuova fase del conflitto che terminerà solo con il definitivo annichilimento di una delle due parti in lotta. La criminale azione militare saudita sta assumendo i contorni del vero e proprio “terrorismo di Stato” come è stato definito dai vertici militari iraniani. I bombardamenti sauditi, infatti, ricordano da vicino quelli dei loro alleati sionisti su Gaza. Non vi è nessuna ratio nella scelta degli obiettivi. Ospedali, scuole, moschee e addirittura campi di calcio diventano obiettivi militarmente sensibili sulla base della mera volontà di diffondere terrore e orrore. Gli stessi aiuti umanitari diventano quasi ipocriti e ridicoli se si considera che arrivano dalle stesse mani che armano i sauditi.

La drammaticità della situazione assume dei contorni ancora più tristi se si pensa che l’Imam Khomeini, colui che con la Rivoluzione islamica in Iran ha scatenato l’odio dei wahhabiti sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, dichiarò:

i fratelli sciiti e sunniti dovrebbero evitare ogni tipo di disputa. Coloro che tentano di provocare dissidi tra i nostri fratelli sunniti e sciiti sono agenti delle grandi potenze e cospirano con i nemici dell’Islam e vogliono che essi trionfino sui musulmani.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente-geopolitica Yemen

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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