La senescenza, termine che, almeno nel primo urto, figura meno spietato di “vecchiaia”, trascina con sé una mestizia di difficile affronto. Lo scoramento si fa finanche più arrogante al cospetto di un’amara consapevolezza. Una lucidità, a tratti violenta, che è stillicidio risonante in una mente sicura. Un pensiero pulsante, sequestrato da un corpo in declino, diviene l’estensione di una deflagrazione tanto intima quanto crudele. Il fragore del colpo ripiega sommessamente su se stesso all’interno di una personalità, davanti alla quale il termine eroico apparirebbe fin troppo poco generoso: Gabriele D’Annunzio.
Lo spettacolo andato in scena al teatro Quirino di Roma, dall’11 al 16 ottobre scorso, ha visto incedere sulla scena nell’interpretazione di Edoardo Sylos Labini, gli ultimi anni di vita del Vate. L’essere sulla soglia, in un varco tutto di contraddizioni umane tra la carne e lo spirito, figura come il cristallo di un’ineluttabilità che si fa impossibilità nel richiamo di una carnalità alla quale non è più possibile rispondere.
L’attestazione accade nello svelamento di una raccolta di lettere tra Gabriele D’Annunzio e la contessa Evelina Scapinelli Morasso. Un forziere segreto che il presidente del Vittoriale nella figura di Giordano Bruno Guerri, ha aperto al teatro che non è solo palcoscenico, ma anche scorcio di luce sul Vate. Le missive, in un numero di duecentoventotto, urlano l’irrealizzabilità di un amore che si perde in una mancanza: l’espropriazione di un corpo giovane.
“Tu non puoi amarmi. Ed io sono tanto decaduto che non mi ricordo, in una cabala d’or è molti anni, d’aver scelto Amare senza essere amato”
In tale ripiegarsi, nell’atto di abbassare le membra al cospetto di un’inabilità, torna con prepotenza il fantasma di quello che fu e mai potrà più essere. L’attrice, la Divina e la Duse, tutte nell’unica creatura che il Vate abbia mai amato; colei che torna a fluire nella tragica fotografia di un abbandono. Il D’Annunzio di Guerri, nella drammaturgia di Angelo Crespi, interpretato da Edoardo Sylos Labini, dentro la regia di Francesco Sala è un Vate segreto.
Lo scrittore si fa uomo nell’inevitabile perdita di un eroismo dinnanzi a un esistente meno epico ma oltremodo pulsante. Ed è proprio nell’umano torcersi al termine della vita che svettano tutte le contraddizioni del vivere, alimentate dallo sconforto di un’imminenza nell’inarrestabilità del tempo. Un superuomo surclassato dalla temporalità. Un trascorrere che figura nemico nelle mancanze di un corpo. Carne che non segue l’impeto, ma si abbandona a una resa poiché l’avversario è tacitamente più forte. Ancora, un erotismo che serpeggia tra testa e cuore e non si rende capace di ridiscendere in quel luogo dove il richiamo lo reclama.
E allora il Vittoriale si fa isola, protezione, sospensione dalla caducità che perpetua nel trattenere i caratteri dell’inespugnabile. L’evanescenza della Duse che abita il cuore di un D’Annunzio dilaniato da antinomie, nella familiarità di un posto accogliente e vivo tra le zuffe di una governante e un’amante. Il Vate segreto è un uomo tragico, ma non patetico, poiché la vecchiaia è infausta, ma mai leziosa. È il poeta che già nel 1902 svela attraverso la voce dell’interprete, la lirica di un’onda che perverrà infine alla propria riva:
Nella cala tranquilla
scintilla,
intesto di scaglia
come l’antica
lorica
del catafratto,
il Mare.
Sembra trascolorare.
S’argenta? s’oscura?
A un tratto
come colpo dismaglia
l’arme, la forza
del vento l’intacca.
Non dura.
Nasce l’onda fiacca,
súbito s’ammorza.
Riportiamo uno stralcio di un’intervista ad Angelo Crespi:
Il “D’Annunzio Segreto” è una commedia dolce amara, divertente, ironica, nello stesso tempo drammatica, che descrive il vate fuori dall’agiografia consueta. Nella prigione dorata del Vittoriale, il poeta ormai vecchio ripensa la sua vita in un serrato confronto con Eleonora Duse, che compare in forma di spirito, l’unica donna che egli ha amato, l’unica donna che lo abbandonato. Questa sorta di catarsi costringe D’Annunzio a mettere in dubbio i temi salienti della propria esistenza: l’eroismo, l’erotismo, il superomismo. Il taglio che ho voluto dare, lontano dal d’Annunzio magniloquente che tutti conosciamo, parte dal “Libro Segreto” che Gabriele scrisse, nel 1935, pochi anni prima di morire e in cui dice testualmente che egli “prova orrore di sé stesso, di quel che è stato”. L’opera non è solo l’ultimo testo significativo, ma il più audace per temi e sperimentazione formale. Rinunciando alla progettata autobiografia o a una proustiana recherche, il vecchio eremita del Vittoriale si racconta: presenta come cercato suicidio la misteriosa caduta dalla finestra che lo tagliò fuori dalla Marcia su Roma, e costruisce una “confessione” del suo Io più occulto, riunendo i fogli in cui fermava pensieri folgoranti, ricordi imprevisti o versi scaturiti nel dormiveglia. E vi premette una agiografia in negativo, una laica Via crucis in cui il poeta solare e guerriero si rivela “tentato di morire” fin dalla fanciullezza. L’esaustiva introduzione e l’ampio corredo di note a cura di Pietro Gibellini svelano finalmente i segreti di questo libro in larga parte criptico. Il libro si chiude con queste parole:
Tutta la vita è senza mutamento.
Ha un solo volto la malinconia.
Il pensiero ha per cima la follia.
E l’amore è legato al tradimento
Nell’opera è anche molto frequente la frase: “La follia non è più ricca di te”, a sottolineare un D’Annunzio più introspettivo e umile, che fa i conti con la propria vita.
Fonte: L’intellettuale dissidente
Bur.eu