Crepuscolare oltre i crepuscolari, raffinato frequentatore della Torino dei critici esordi del secolo breve, intelligente lettore di D’Annunzio e dei simbolisti francesi, Guido Gozzano è – parola di Eugenio Montale – il più artista dei poeti del suo tempo, ovvero il tempo abitato da quelle incrinature che solo l’avanzare di un mondo inquietante e opprimente quale quello borghese può provocare, seppur dando voce – flebile o intensa che sia – a una poesia tanto acuta da riuscire a raccontare davvero le buone cose di pessimo gusto che affollano la malinconica quotidianità degli anni zero del Novecento.
Così – l’esteta gelido, il sofista – si autodefinì Guido Gozzano a ventisei anni, quando sulla rivista la Nuova antologia (per chiudersi poi nella sua seconda raccolta, I colloqui) apparve un lungo componimento, un poemetto in sestine variamente rimate, con un sottotitolo fulmineo, Idillio. Tratta di una certa Felícita a cui Gozzano si riferisce con un appellativo da lui odiato, signorina. Che Gozzano odiasse la parola signorina lo sappiamo troppo bene. Due anni prima il poeta torinese scriveva queste parole all’amica e amante (seppur per un breve e tormentato periodo) Amalia Guglielminetti:
“Signorina – che brutta parola! Degno prodotto del nostro tempo di evoluzione che anche della vergine ha fatto una creatura oppressa, non definita […] figura triste; o che inconsapevole della sua miseria viva beata, intellettualmente impoverita dalla secolare mediocrità borghese”
Gozzano e la signorina Felicita: un gioco tra sacro e profano
Felicita è una creatura ambigua, triste, inconsapevole, misera, l’effigie di un mondo imborghesito che a Gozzano dà una certa nausea. D’altra parte Felicita trascorre il suo tempo in un locus amœnus, tosta il caffè, attende affettuosamente il poeta (qui, come altrove, auto ironicamente di mestiere fa l’avvocato). E in una serie di flemmatici ricordi musicali pascoliani e carducciani, la si vede in una casa di campagna un po’ barocca, immersa nella pace di settembre, tra stanze silenziose e morte, nella triplice sinestesia (e anestesia) di ombre che si vedono e si respirano, di ricordi che si odorano, l’odore di fiabe defunte come quello che si percepisce nelle vecchie case rustiche dove di tanto in tanto appaiono decorazioni e dipinti desueti che raccontano vecchi miti, armadi enormi, stridenti, sempre pieni di lenzuola e di pratiche sapienziali quali quelle delle donne che piegano e ripiegano la biancheria, che fanno a maglia.
Il padre di Felicita è un borghese accanito, un usuraio quasi bifolco che di mestiere fa il farmacista. Felicita invece è una ragazza quasi brutta, la vediamo con il volto geometrico, spolverato di lentiggini, i capelli slavati e tirati (si può pensare a qualche figura femminile di Hamsun, di Günter Grass o di Bergman), gli occhi fermi e civettuoli. È d’altra parte signorina, vuol piacere al poeta-avvocato, il forestiero che in casa s’infradicia nel suo mondo borghese, che gode delle piccole soddisfazioni offerte da una modesta vita da borgo, intarsiata nelle mani di Felicita che sanno di basilico e di aglio. Tutto d’un tratto, tuttavia, in una scenetta calda e comune, di fronte a un camino, il poeta sente il verso di un grillo. Immediatamente ciò evoca in lui un ricordo letterario, quello di Pinocchio e del grillo parlante, e con esso la sua vita da uomo di lettere. Tornano così le preoccupazioni e le angosce che abitano la sua esistenza teoretica e affollata di prosodia e di pensieri, mentre Felicita, signorina, di fronte a lui sorride.
L’idillio, in questo gioco tutto gozzaniano di sacro e profano, di malizia e timore, di menzogna e di confessione, diventa un ambiguo idillio amoroso, e tra i porri e l’insalata, le stagioni camuse, al poeta tutto piace e dispiace di quel mondo e di Felicita. L’avvocato potrebbe sposare Felicita e Felicita, tutta intimorita, potrebbe sposare lui, lei, la signorina brutta e poveretta! Che mistero che è la donna, che mistero che è l’amore, che strana che è la vita. Felicita non medita di Nietzsche, al massimo taglia le camicie (la rima “per l’orecchio” più bella della nostra letteratura), eppure piace al poeta. Per lei lui rinnegherebbe la sua fede letteraria e si trasferirebbe nella vecchia casa di campagna. Anzi, l’ama così tanto, la signorina Felícita (adesso spostiamo davvero l’accento: la Felicità), che Gozzano si vergogna come un cane:
“Sì, mi vergogno d’essere un poeta!”
E con grande impeto lirico, ripudia la sua professione, il suo talento e ripudia perfino sé stesso:
“Ed io non voglio più essere io!”
non vuole più essere l’amante sfrenato della pura bellezza, ma così lontano dalle verità e dai sentimenti comuni (l’esteta gelido), non vuole più essere l’intellettuale freddo e chiacchierone che non ha niente in fondo al cuore (il sofista), ma, tramite un rovesciamento leopardiano, vivere nel borgo di Felicita, darsi alla piccola conquista, al poco guadagno, a ciò che basta, a una vita umile e vuota, per ritrovarsi in oblio, all’oscuro di tutto, all’oscuro di Nietzsche e di D’Annunzio, all’oscuro di sé stesso, proprio come fa quel farmacista rozzo che è il padre della sua amata. Non tarderanno le delusioni e la mancata realizzazione di quel mondo, l’amara risoluzione di sé stesso in sé stesso, gioco diabolico per cui l’esilio da ciò che si è non sembra essere permesso dalla natura stessa di ciò che si è.
Tutto sembrava lieto quando Gozzano fingeva d’amare Felicita, quando inventava d’essere un altro dal gelido esteta e dal sofista che era. Ma questo d’altra parte è Gozzano, colui che, fingendo d’essere altro dal Gozzano che è, diventa il Gozzano che è. Guido Gozzano ha scritto relativamente poco. Fuori dalle carte da lettera, fuori dalle parole di critici sudati che l’hanno amato o odiato in vita, dagli epigoni dannunziani che probabilmente lo hanno letto con la puzza sotto il naso e da coloro che tuttora si interrogano su quale etichetta bisognerebbe allacciargli per calmare l’agitazione dei manuali di storia della letteratura, Gozzano pubblica nel 1907, a ventiquattro anni (ma aveva cominciato molto prima), La via del rifugio; due anni dopo, nel 1909, I colloqui. In prosa si ricordano le sue belle fiabe e novelle e, postume, le sue Poesie sparse, che si spalmano sulla primissima produzione giovanile (1901-1904) fino a quella che fa seguito alla sua precoce morte.
Gozzano: un vero poeta crepuscolare o un tardo decadente?
Infine, tra il resto, le incomplete Epistole entomologiche (o Le farfalle) e il resoconto di quella strana esperienza che Gozzano, visse nella lontana India assieme a un amico, verso la cuna del mondo, dove Gozzano si recò partendo da Genova con la speranza di curare la sua tubercolosi (male che sembra aver avuto un amore particolare per gli uomini di lettere, se pensiamo che si portò via anche Corazzini, Laforgue e Kafka). La domanda non cambia con gli anni: che cosa era Guido Gozzano? Era davvero un poeta crepuscolare? Era un tardo decadente? O altrimenti non esiste classificazione che possa inquadrarlo fino in fondo? Tra queste questioni, quella che ha ricevuto la maggiore enfasi da parte dei critici, degli storici e degli amanti è di certo l’ultima.
Che Gozzano avesse avuto vicinanze con i crepuscolari è innegabile, ma non è ovvio affermare che egli fosse davvero un crepuscolare se non, come dicono alcuni, il crepuscolare per eccellenza. D’altra parte il termine spunta tardi, esattamente il 10 settembre del 1910 quando sulla Stampa Giuseppe Antonio Borgese, parlando di poeti quali Moretti e Chiaves, si riferisce a una “poesia crepuscolare”. Non era proprio un complimento, dato che per Borgese, critico ma anche autore (pubblicò un romanzo dal titolo Rubé), la grande stagione poetica si era conclusa con le Laudi, dopo le quali non c’era che un lento crepuscolo. Il termine tuttavia sopravvive tanto da designare in qualche modo un gruppo di poeti tra cui Novaro, Thovez e il più conosciuto Govoni, autore di quelle Poesie elettriche che ne fanno, oltre e più che un crepuscolare, un vero futurista ante litteram.
Capostipite concettuale ne è di certo l’incantevole Sergio Corazzini, poeta giovanissimo e precocissimo (anche, purtroppo, nella scomparsa), che esaudisce davvero ciò che Borgese vedeva verificarsi in area romagnolo-fiorentina con Moretti, in quella romana con Martini e in quella torinese con Chiaves. La poesia di Corazzini è la poesia che solo un animo crepuscolare può esprimere, un animo ripiegato, in abbandono, languido e malinconico, alquanto catatonico di fronte a quella realtà quotidiana che si fa di piccole crisi addolcite solo da una mesta autoironia, tra personaggi modesti, povere piccole cose, tra corsie di ospedale, fiori finti, animali imbalsamati, futili amori giovanili. Non vi era un manifesto, vi era solo l’affermazione che la letteratura non fosse un qualcosa da vivere superomisticamente, eroicamente (come voleva D’Annunzio), ma qualcosa che, se espresso con la voce, doveva suonare basso, sommesso, sussurrato, strozzato.
Ruoli sociali non ce n’erano, vate nemmeno, e la maggior parte della lirica trasudava d’una inquietudine malinconica, una sfiducia nei confronti di Dio, dell’io, della politica e della società. Ne rimane l’appartamento in giardini incolti e polverosi, tra cianfrusaglie come quelle che si potrebbero trovare nella soffitta di Felicita, nella ripetizione dei riti e delle noie domenicane, suggestioni che avvicinano direttamente i crepuscolari, più che a una diretta scuola italiana, alla poesia francese, tra tutti il Jules Laforgue dei Complaints, delle sonnacchiose nottate in provincia, dei lamenti lunari, delle domeniche piene di tedio, così efficacemente ricordate nei mosaici teatrali che ne darà qualche anno più tardi, proprio accanto a suggestioni gozzaniane arrivate da Felicita, Carmelo Bene. Una cosa è certa e di ciò ce ne dà prova Nino Oxilia, con il suo Saluto ai poeti crepuscolari: questi poeti, seppure il movimento non fu del tutto omogeneo, si sono sentiti davvero crepuscolari.
Non nacquero dal nulla – diremmo che non nacquero proprio (se pensiamo che dei futuristi abbiamo un manifesto ben collocato) –, si sono sentiti in fuga ma non avevano dove fuggire e, se dovevano farlo, non lo facevano di certo verso il futuro tanto idolatrato da Marinetti, ma verso un passato nostalgico. Se per necessità di inquadramento critico bisogna dire qualcosa, diremo che volto abbiano i crepuscolari: hanno i capelli bianchi di Pascoli, i lineamenti di D’Annunzio e il viso dei simbolisti francesi. Dopo Borgese, Scipio Slapater, scrittore e militare italiano, sulla Voce il 16 novembre 1911 scriverà Perplessità crepuscolari, riprendendo proprio i versi della Signorina Felicita. Qual è la differenza con Borgese? Che Slapater, oltre che alla Via del rifugio aveva, per ragioni cronologiche, potuto leggere anche I colloqui, riconoscendone l’inferiorità rispetto alla prima.
Gozzano e il suo tormentato rapporto con D’Annunzio
Gozzano non è, insomma, il poeta della signorina Felicita ma è quello di nonna Speranza, figura emblematica della raccolta del 1907. Curioso è che nella piccola famigliola poetica italiana, oltre ai già citati, inserisca anche Palazzeschi e, udite udite, Umberto Saba. Parla militarmente Slapater: i crepuscolari sono poeti deboli sotto ogni punto di vista. È invece Emilio Cecchi a riconoscere infine la complessità della poetica di questi autori individuando tra i crepuscolari, con un’immagine da presepe, Gozzano come Messia e Corazzini come Battista. Ma insomma, Gozzano, è davvero un crepuscolare? Possiamo dipanare la questione in questa maniera: Gozzano è probabilmente l’unico dei crepuscolari a potersi situare oltre i crepuscolari.
Certo, come Corazzini rifiuta l’alloro, rifiuta d’essere poeta, e come Palazzeschi vuole che lo si lasci divertire (seppure con la varianza del sognare), scrive poesie con il lapis come Moretti, si ricorda con mestizia di Carducci, morto proprio nell’anno di pubblicazione della Via del rifugio e, soprattutto, del suo maestro D’Annunzio, ma la sua complessità e versatilità trabocca tanto che le maglie di una rigida appartenenza alla “famiglia non-famiglia” dei crepuscolari non potrebbero contenerla. Gozzano è un conservatore, ma un conservatore, diremmo, illuminato, che agisce all’interno della tradizione per ricavarne la propria libertà. Lo osserviamo generalmente dai moltissimi riferimenti che Gozzano fa alla classicità, a Dante, a Petrarca, a Leopardi e, soprattutto, ai vicini Pascoli, Carducci e all’amato-odiato Gabriele D’Annunzio.
Gozzano è un entusiasta ammiratore e imitatore di D’Annunzio, almeno fino al momento in cui rifiuterà la parola del suo vate. Si può affermare, senza cadere in contraddizione, che in tutta la poesia di Gozzano, sin dagli esordi, sia visibile il suo tormentato rapporto col dannunzianesimo. Le poesie dal 1901 al 1904, quelle davvero giovanili (Gozzano ha solo 18 anni nel 1901) sono il suo vero apprendistato poetico sotto l’egida dannunziana. Claudio Carcaterra, amico dei crepuscolari torinesi, analizza bene le origini dannunziane del poeta. Gozzano era un dannunziano puro. Amava la concezione della vita fondata dell’estetismo, sul valore supremo e riconosciuto all’arte. Racconta l’aneddoto per cui un amico comune, di fronte alle pagine della Via del rifugio, avrebbe strappato il testo fino a lasciare solo le poesie liberate della presenza di D’Annunzio (ben poche).
Questi sono i sonetti La preraffaellita e Vas voluptatis, che Gozzano compone nel 1903. Il primo fa riferimento a un tipo femminile languido ed etereo (per l’appunto, preraffaellita), quale quello che si ricavano da certa poesia inglese di fine Ottocento e vicinissimo alla Viviana May de Panuele, gelida virgo prerafaelita, delle Due Beatrici dannunziane. Vas voluptatis ricalca invece il Vas spiritualis e il Vas mysterii: altro sonetto su misura dannunziana, fin troppo aulico e giovanilistico per il Gozzano degli anni successivi. Potremmo continuare ancora (uno su tutti Laus Matris). Naturalmente vi sono varianti. Il castello di Aglié, ad esempio, (Aglié è una località del Canavese, vicino Torino, ed è uno dei luoghi più frequenti nella poesia di Gozzano, in quanto là la famiglia del poeta possedeva una villa) ha come referente palese il Carducci.
Massimo Bontempelli è invece il destinatario di una assai importante poesia in terzine dantesche (metro usato anche per Elogio degli amori ancillari e Ketty), amico torinese di Gozzano, scrittore e giornalista, esponente con De Chirico del realismo magico. In realtà la destinazione letteraria è qui solo un pretesto perché questa poesia vuole essere per Gozzano il luogo (siamo nel 1904) in cui si affermi il suo allontanamento dall’ombra del maestro D’Annunzio, allontanamento che si completerà (senza mai tuttavia sradicarsi del tutto) solo con il 1907, l’anno della Via del rifugio. Dice Gozzano:
“Amai stolidamente, come il Fabro, / le musiche composite e gl’ingani»
E ancora:
“Troppo m’illuse il sogno di Sperelli”
Le riprese sono palesi: il primo è un termine – il fabbro – carducciano, mentre Sperelli è evidentemente l’Andrea Sperelli protagonista del Piacere. Poco ci importa la scelta di questo nome, ripreso probabilmente per ragioni metriche, in quanto ciò attesta in fieri che Gozzano sta procedendo verso una soluzione autonoma della sua poetica riconoscendo che l’estetica dannunziana ha provocato in lui un sentimento che conoscerà sulla sua propria strada, molto bene, quello dell’illusione. Gozzano nasce nel 1883 a Torino. Suo nonno materno, il senatore Mautino, era amico personale di Cavour e di d’Azeglio, mentre sua madre, Diodata aveva un sensibile animo d’artista. Carlo Gozzano, padre di suo padre, era un medico e un letterato, oltre che proprietario della villa di Aglié che oggi è la principale meta per i pellegrinaggi letterari sulla scia di Gozzano.
Ma insomma, che cos’è la poesia di Gozzano? Prima di tutto possiamo dire che quasi ovunque questa domanda si traduce, in Gozzano, in un’altra domanda, più inquietante, che affolla la mente di molti scrittori di inizio secolo: è ancora possibile la poesia? Detto in altri termini: è possibile nella nuova società borghese, asservita alla moneta più che alla parola, alienante, post-positivistica, scrivere ancora poesia? Conosciamo già la risposta di Borgese, come quella di D’Annunzio e di Pascoli, ma intuiamo già, con Corazzini e i crepuscolari, una sentenza più oscura. D’Annunzio stesso, dall’alto del suo magistero (così almeno suona a Gozzano), prende lucidamente atto dell’impronta cupa con cui si apre il secolo della psicanalisi, delle trincee e della morte di Dio.
La necessità della poesia da un lato come necessità esistenziale e seria, l’ultima scommessa dei crepuscolari e il mondo borghese
Il mondo borghese, quello ideologico e quello vissuto, esige normalità, ma la normalità non esige affatto la presenza della poesia. In questa presa di coscienza D’Annunzio trova comunque spazio per il tragico – il tragico della morte dell’arte –, c’è un conato eroico nella rinuncia. In Gozzano invece – ed ecco le eco della Via del rifugio che già si profilano nel cambio di rotta del 1904 – questo non c’è. C’è una presa di coscienza, certo, più viva e onesta che altrove, tuttavia laddove in D’Annunzio questa presa si traduce in uno sforzo eroico, in Gozzano essa parla con la voce dell’ironia, di un’ironia sommessa nei confronti del mondo e di sé stesso. Da qui la necessità della poesia da un lato come necessità esistenziale e seria – ultimo spauracchio prima che l’abisso borghese inghiottisca definitivamente l’artista –, dall’altro come amara ironia, finzione e illusione, ma finzione del tutto riconosciuta e del tutto accettata. Sono rari i momenti in cui possiamo confidare che Gozzano davvero creda nella finzione che sta mettendo in gioco.
Ecco allora il riferimento, più disincantato e onirico, a Palazzeschi quando muta il celebre Lasciatemi divertire e in Lasciatemi sognare, ecco l’atteggiarsi ad avvocato nella Signorina Felicita, ecco il non voglio più essere io, ecco quello che fingo d’essere e non sono. Questa è l’ultima scommessa dei crepuscolari: accettazione della norma borghese (pars passiva) e tollerala tramite la poesia perché non svanisca la sua funzione d’espressione del reale, persino di rinuncia, perlomeno ironica (pars attiva). Se si può dire, ancora, che Gozzano faccia un passo in più dei crepuscolari è proprio perché in lui quest’ironia e questa finzione non sono che una maschera, ma una maschera dichiarata. Dove fare poesia, allora, se questo mondo non lascia luogo per essa? Come ricorda Squarrotti:
“In spazi laterali, nascosti, mimetizzati, fuori della regola sociale, per disperata convenzione del poeta ovvero per qualche raro privilegio che la società consente”
In attesa di quella signora vestita di nulla (cfr. L’ipotesi, VR), la morte, che tramite la malattia, vero simbolo della malattia poetica:
“Salva dalla resa all’ideologia borghese del guadagno”.
Quasi eroicamente. Quasi, termine più novecentesco che mai. Felicita è quasi bella e il farmacista quasi bifolco. Il “quasi” si configura come l’interstizio in cui si vuole situare tutta l’esperienza poetica e di vita di Gozzano. Gozzano ama Felicita? Quasi. Nel quasi si situa ogni polverosa ideologia, ogni spinta di valore, nel gran museo delle povere cose di pessimo gusto, autentica fenomenologia dei più borghesi dei luoghi – il pappagallo impagliato, il busto dell’Alfieri, il caminetto, le scatole senza confetti, il mosaico veneziano, gli acquarelli scialbi, le miniature e i (tanto gozzaniani) dagherrotipi, il gran lampadario che pende in mezzo al salone, il cucù dell’ore che canta (cfr. L’amica di nonna Speranza), ma lo stesso emblematico quadrifoglio che Gozzano non coglie nella poesia che apre e conferisce il titolo alla Via del rifugio –, nel quasi si intravedono le donne che Gozzano amerebbe nel tentativo di comprendere se si possa persino amare tra le tele e gli armadi vuoti della nuova borghesia – la Guglielminetti stessa, Felicita, quella cocotte e quella Ketty delle Poesie sparse, naturalmente il palinsesto di tutte le “Non godute”, fino a tutte quelle signore che, nella meravigliosa Le golose, divorano le paste nelle confetterie dietro la loro veletta, che Gozzano ama inevitabilmente tutte.
Tutto questo con la dolceamara coscienza che non si debba violare la prosodia e il metro per esprimere un dissenso che non c’è, come tanta poesia farà (Gozzano è un grande frequentatore e che conoscitore di molti luoghi stilistici e metrici tradizionali, facendo uso di moltissimi versi, dal monosillabo all’alessandrino – e forme – dal sonetto, alle terzine dantesche, alla sestina…) né rinunciare a Dante, Petrarca, Tasso, Parini, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, Leopardi, seppure il tono è quello di chi parla in una bottega, di chi affettuosamente cela dietro l’apparente semplicità (o grande ingegneria, s’intende) del linguaggio e dei volti un’architettura ancora complessa e variegata. Gozzano tenterà, agli estremi, un’ultima trasgressione, un’ultima ribellione, rappresentata dal viaggio in quella tanto lontana cuna del mondo che avrebbe dovuto salvarlo. Ma al ritorno da un oriente così lontano dalla sua Torino lo attende solo il silenzio, la pagina senza accenti.
Fonte: L’intellettuale dissidente