Destra o sinistra, poco importa, uno scrittore deve pensare ad altro: «I comunisti – raccontò Borges ad Alberto Arbasino – mi considerano un fascista, i fascisti mi considerano un comunista, dunque non sono da nessuna parte, sono un vecchio individualista». Lo accusarono di “cosmopolitismo culturale”, lui, amante dell’Europa, ebbro dell’idea di sintetizzare Oriente e Occidente, con una vocazione universale (non universalistica) che rigettava l’idea di esaurirsi in una letteratura, in una nazionalità. Considerava la storia del mondo come uno spartito, (la sola) in grado di far incontrare culture diverse senza spargimenti di sangue. Una vocazione, ça va sans dire, opposta a quel cosmopolitismo straccione che oggi è la madrelingua di un mondo globalizzato e sradicato.
Un uomo sogna di essere una farfalla. Poi si sveglia: è ancora un uomo. Elementare, no? Ma se fosse a sua volta un sogno della farfalla? Non c’è modo di saperlo. È possibile però scriverci su. È quello che fece Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986), cartografo dell’onirico, geografo dell’immaginario. È forse il sogno a costituire la cifra più autentica di questo realista magico argentino, tra i massimi scrittori del secolo breve, che ci ha regalato capolavori come L’Aleph e Finzioni. Vero erede di Calderón de la Barca, era dotato di una memoria straordinaria, che gli permise, nonostante la cecità in cui il destino lo precipitò, di garantirsi un repertorio di opere sempre presenti nella sua biblioteca intellettuale. La cecità… In uno dei suoi racconti più intensi, Günther Anders parla di due prigionieri, costretti in una cella buia: è solo il sogno a restituire i colori a Olo e Yegussa, in un singolare ribaltamento di prospettive. Il giorno è la loro notte, e viceversa. Lo stesso potrebbe valere per Borges, la cui vivida immaginazione riempì d’immagini il buio perenne nel quale si trovò a vivere.
Nobel mancato (per via di un apprezzamento su Pinochet che non riscosse particolari entusiasmi tra i suoi colleghi svedesi), nella sua opera immortale ha sviluppato il gioco di scatole del Lewis Carrol di Through the Looking Glass. La sua Alice è un sogno del Re Rosso («Cosa credi stia sognando?» le chiede ironico Tweedledum) e non è più o meno reale di quella al di qua dello specchio. E l’autore, a sua volta, non è un ennesimo sogno di se stesso? Una fuga di saloni, insomma, attraverso i piani dell’essere, fino all’Ente Sommo e più oltre ancora: che accadrebbe al risveglio? Forse, «se l’Eterno / Spettatore cessasse di sognarci / Un solo istante, ci incenerirebbe, / Bianco e improvviso fulmine, il Suo oblio».
A Borges, tra l’altro, non interessava tanto il sogno in se stesso, quanto la sua irruzione nella realtà. La storia? «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli» – ed è probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. È la somma ironia di Borges, la quale – come la danza di Shiva – edifica mondi dal nulla e, in un batter d’occhio, solvet saeclum in favilla. «Noi – scrisse – abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e stabile nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità per sapere che è falso». La storia è un lungo sonno, d’accordo. Ma questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Spetta all’artista – e non allo storiografo – viverli in modo più lucido, sognar più vero, come scrisse Nietzsche (non molto amato dallo scrittore argentino, invero). Ebbene, continua Borges, i sogni ricorrenti della storia sono quelli che comunemente chiamiamo simboli, archetipi, verità antiche, eterne, ribadite di secolo in secolo, di generazione in generazione. Dietro all’artista agisce un sostrato profondo – l’Inconscio Collettivo di Jung, la Grande Memoria William Butler Yeats – che modula su nuove variazioni temi antichissimi. Il principale è la segreta simpatia che lega l’uomo al cosmo, le correspondances cantate da Baudelaire, l’idea che ciò che siamo non si esaurisca in un’individualità ma sconfini in un destino molto più ampio… Lo raccontò a Ronald Christ, nel corso di una lunga intervista:
«L’intero universo è attraversato da legami; ogni cosa e connessa al tutto, […] è uno specchio segreto dell’universo».
Anche se spesso poeti e scrittori non ne sono del tutto coscienti, è questa simpatia universale che narrano. È ad essa che accordano il loro canto. È la Grande Arte, bellezza. Il resto non è che feticcio. È sempre la Parola a compiere questo piccolo miracolo. È il linguaggio, evento anzitutto simbolico la cui genesi non si esaurisce nella sfera mentale o sociale, come una pessima filosofia del linguaggio ci ha fatto credere. L’origine del verbo è sacra, come instancabilmente hanno ripetuto intellettuali di ogni latitudine – Attilio Mordini, Thomas De Quincey e Arthur Machen, solo per fare qualche nome –, e non un imprecisato e vacuo flatus vocis. Scintilla divina che il tempo ha usurato, spetta al poeta «restituire alla parola, almeno parzialmente, la sua primissima e oggi nascosta virtù». Basta ascoltare il Robert Browning cantato da Borges per capire quale sia la quintessenza del linguaggio secondo lo scrittore argentino:
«Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mercurio fuggitivo, / farò che le comuni parole / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / Dirò a mia volta le cose eterne».
Nasce proprio qui la supremazia dell’estetica su discipline come etica, filosofia, storia, teologia… Prima di essere ingabbiato nelle morali e nelle filosofie, prima di essere trascritto su tavole di pietra o in dottissime trattazioni, il mondo accade come fenomeno estetico. Guai a chi riduce a prodotto storico l’arte, che non dovrebbe servire il tempo ma combattere la tirannia di Chronos. L’arte, scrive Borges, è «un piccolo miracolo […], che sfugge, in qualche modo, all’organizzata casualità della storia». Se la storia invade il terreno dell’arte, ecco nascere la storia della letteratura, la sociologia della letteratura e via dicendo. Discipline che mettono definitivamente a tacere le Muse. Dove comincia l’analisi termina la bellezza. Ma art happens, l’arte accade, ripetendo ogni volta il prodigio della genesi, aprendo squarci d’assoluto sulle nostre vite. L’arte legittima la storia, non viceversa: in aperta opposizione agli eruditi e ai collezionisti di dati, per giustificare l’universo basterebbero pochi versi, «la bellezza di qualche sillaba, di un quadro, di una statua […]. È una difesa dell’estetica. Se l’estetica è invece intesa come giustificazione della storia risulta pesante, addirittura vanitosa». Naturale che il critico americano Harold Bloom abbia inserito Borges tra gli alfieri del Canone Occidentale, i quali non concepiscono l’esistenza che come fenomeno estetico. Al diavolo le scuole letterarie, sepolcri dello stile! E al diavolo la cosiddetta “arte impegnata”, ancella della morale o della politica:
«È un’ingenuità […]. Uno scrittore può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Egli deve essere leale verso la propria immaginazione e non verso le ovvie, effimere circostanze di una supposta “realtà”».
Mai piegarsi alle mode del momento: meglio cogliere nel divenire ciò che si ripete – i sogni ricorrenti, appunto, gli archetipi. Siamo tutti variazioni viventi di un tema antichissimo. Lo scrisse nelle sue Altre inquisizioni: «Forse la storia universale è la storia di alcune metafore». Non sono poi tantissime, a dire il vero: l’assedio di una città, il ritorno dell’eroe, la queste, il sacrificio di un dio, gli specchi e i labirinti, le tigri e i pugnali, l’enigma del tempo, le biblioteche… Un ventaglio di immagini, a esaurire la storia universale. Inafferrabili alla comprensione logico-razionale, continuano a sottrarsi, per poi rivelarsi fulmineamente. Ed è dall’abisso del loro ritrarsi che sorge l’opera d’arte:
«Quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico».
Queste metafore non vengono “inventate” da qualcuno ma attraversano i secoli e gli uomini, in cerca di qualcuno che dia loro architettura estetica. Costui è il poeta, il cui lavoro «è di natura passiva; si ricevono doni misteriosi e poi si cerca di dar loro una forma, ma si comincia sempre da qualcosa che non siamo noi». È un’alchimia di corsi e ricorsi, ché «al destino piacciono le ripetizioni, le varianti, le simmetrie». Peccato che la memoria degli uomini («copie temporali e mortali / di un archetipo inconcepibile») sia corta, cortissima – complice anche la storiografia, che l’ha atrofizzata, con il culto del dettaglio e la mania dell’esattezza. Meglio affidarsi alle cose, più antiche degli uomini: le spade, che hanno attraversato diversi costati, le pietre, sopravvissute ad assedi e devastazioni, gli specchi, i labirinti, il senso delle stagioni, le nascite e le morti… Una visione metastorica sulla storia, insomma, giacché «nel tempo durano solo le cose / Che non appartennero al tempo». Ed ecco che un capodanno diventa l’occasione, in una poesia giovanile poi pubblicata in Fervore a Buenos Aires, di riflettere su ciò che nel tempo non si esaurisce:
«Il sospetto generale e confuso / dell’enigma del Tempo; / è lo stupore di fronte al miracolo / che nonostante le infinite sorti, / che nonostante siamo / le gocce del fiume di Eraclito, / qualcosa in noi perduri, / immobile».
È forse una delle immagini più efficaci del nostro Sé, il cui luogo naturale è un’origine non esiliata all’inizio dei tempi ma che è illud tempus, che si ripete ad ogni istante regalandoci il crisma dell’immortalità. È qui che sgorga la vera Arte, è qui che affondano le radici del Grande Stile. Nel corso dei secoli sono stati dati molti nomi a questo Altrove: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La nostra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, subcosciente collettivo e via dicendo, ma è sempre la stessa cosa». Ecco il punto: ogni epoca ha le proprie mitologie, ma Borges preferiva quelle antiche alle mistiche dell’inconscio di Freud (che aveva definito «un ciarlatano ossessionato dal sesso»), cui preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung. A patto che, ovviamente, venisse letto come un creatore di miti. Lo stesso dicasi per Plinio o Il ramo d’oro di Frazer. Tutte enciclopedie dell’immaginario. Un immaginario – aggiunse, con quell’ironia che abbiamo già conosciuto – il quale, molto probabilmente, nemmeno esiste. Al pari della realtà. Palla al centro.
La morte, lo scrivere, il leggere, l’amore, l’amicizia, il karma, la cecità.
Ora, verrebbe da chiedersi: poteva un uomo che si muoveva entro queste coordinate intercettare in qualche misura la politica del suo tempo? Certamente no. E, infatti, i suoi rapporti con l’attualità furono disastrosi. Antiperonista, avverso alle aristocrazie come alle plebi, pagò cara la sua opposizione, come raccontò in quello che dovette essere un abbozzo di autobiografia: poco dopo l’ascesa di Peron, «mi fu data la bella notizia che non avrei più lavorato nella biblioteca ma che ero stato “promosso” a ispettore di polli e conigli ai mercati». Andò in municipio, chiedendo perché fosse stato destinato proprio a lui questo onore: «Be’ – rispose l’impiegato, – lei era dalla parte degli Alleati. Che cosa si aspettava?». Cosa rispondere? Il giorno dopo diede le dimissioni. Era pedinato costantemente da un detective (antiperonista, tra l’altro), con il quale finì per stringere amicizia. Quei pedinamenti divennero delle lunghissime conversazioni. È quel che accade quando il destino forza le sbarre della realtà. Questo impolitico conobbe la disgrazia di sottoporre la contemporaneità al vaglio della sua visione del mondo, nulla risparmiando. Conservatore, a chi gli chiedeva cosa pensasse delle rivoluzioni rispondeva:
«Solo una rivoluzione nel petto di ciascun uomo potrebbe riportarci a quella dignità che, per essere antica, è sempre nuova».
Meglio stare lontani dalla politica e dall’attualità. La democrazia? «Un curioso abuso della statistica». Le masse? Costruzioni dei politici: contano solo gli individui. Spenseriano fino al midollo, detestava lo Stato, occhiuto e onnipresente, quello raffigurato dal suo amato Kafka, nei cui racconti gli individui, ridotti a variabili statistiche, si perdono nei labirinti di un meccanismo antiumano.
Un destino la cui espressione più straordinaria è quel piccolo capolavoro che è l’Antologia della letteratura fantastica, realizzata con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, «uno dei pochi libri che meriterebbero di essere salvati nel caso di un nuovo diluvio universale», come disse egli stesso ridendo. Un giudizio che non si può non sottoscrivere. Oltre a condensare tutte le sfaccettature della Weltanschauung borgesiana, quest’antologia è il manifesto ideale di tutti gli antimaterialisti, di chi non si ferma alla superficie delle cose, di chi crede nella forza dell’immaginazione. È un manifesto universale, poiché tutta la letteratura è fantastica. Lo è sempre stata, come Borges raccontò ad Arbasino, «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono ramificazioni di questo genere. Ne condividono gli archetipi e i simboli, modulandoli in base allo Spirito del Tempo. È per questo che «bisogna ritornare a questa tradizione fantastica che è la vera grande tradizione, la tradizione principale della letteratura; il resto è piuttosto giornalismo, sarà anche storia, ma non è letteratura». Il realismo? Un episodio funesto, che ha infestato qualche secolo ma ben presto tramonterà. La grande letteratura, ci dice Borges, non è mai stata realista. Ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di tutti i tempi. Non ha mai celebrato, sic et simpliciter, la realtà. E scrivere di letteratura fantastica significa emendare questo errore, tornare alla normalità:
«Io non sono affatto un innovatore, e […] non ho fatto altro che continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte quello che faceva anche Dante».
Più chiaro di così… E la letteratura fantastica altro non è che il campo di battaglia degli archetipi. Selezionando i testi, disse a María Esther Vázquez nel corso di una lunga intervista pubblicata in italiano negli anni Novanta, Borges, Bioy Casares e la Ocampo verificarono che, «anche se molto diversi fra di loro e provenienti da diverse epoche e paesi, sempre ruotavano intorno ai medesimi temi». L’identità personale, scissa e traslata, plurale e proteiforme, la metamorfosi, i talismani, «la causalità magica, che si oppone alla causalità reale, le interferenze del sonno e della veglia, la fusione dell’onirico con il quotidiano e – il filone forse più ricco – l’argomentare sul tempo. In questa ultima categoria rientrano le profezie e i sogni profetici». Tutto si tiene, insomma, il reale e il fantastico. Senza soluzione di continuità. «La realtà lavora in aperto mistero» amava dire Macedonio Fernández, amico di Borges. Potrebbe essere il titolo di una sua opera, scrisse Fernando Savater, che ricorda anche come Borges, sul letto di morte, tenesse una selezione delle lettere di Voltaire e i Frammenti di Novalis, che l’infermiera gli leggeva di continuo.
L’illuminista e il mago, il reale e l’onirico, Platone e Aristotele: queste le polarità che scandirono la sua vita, e che egli fu capace di combinare e sintetizzare, intravedendo nelle architetture speculative e teoretiche un prodotto dell’immaginazione creatrice. Tra mito e logos Borges scelse di non scegliere, avventurandosi in una realtà dalle continue contaminazioni magiche. Non è un caso che Louis Pauwels e Jacques Bergier abbiano inserito un frammento dell’Aleph nel loro Mattino dei maghi, breviario del realismo magico. Non si conosce il mondo se non lo si affronta nei suoi frangenti magici. La vita è sogno. E L’Aleph può trovarsi ovunque, anche nei sottoscala. E così procedette, attraverso labirinti e biblioteche, l’Europa e il Nuovo Mondo, Oriente e Occidente, sbozzando l’immaginario collettivo intorno a un centro unico (ciò che è in alto è come ciò che sta in basso) che sempre si sottrae, lasciando come caput mortuum un segno su un foglio di carta, a dirimere un’immagine, che troviamo nell’epilogo de L’artefice:
«Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».
Fonte: L’intellettuale dissidente