Un mondo sconosciuto agli albori del cinema e della stessa fotografia, ma non meno immaginifico e dinamico di quello inaugurato dai fratelli Lumière. Un universo composto di dettagli, un microcosmo fatto di particolari e finezze che stimolano la fantasia, l’ingegno, il sogno. Certi oggetti (e certi mondi) si scoprono, magari, per caso. Si fa scricchiolare il vecchio parquet di una casa-museo ad Anversa, come potrebbe essere quella del pittore fiammingo Rubens, e si vede spuntare nel mobilio – tra i ritratti, i baldacchini e gli utensìli… – un manufatto unico: si tratta di un grande scrigno di mogano, ancora lucido e intatto, alto e affusolato, con al centro una lente da cannocchiale. Il Seicento è un secolo pieno di cannocchiali, non solo per la fama che ad essi ha dato Galileo, ma perché la loro storia inizia proprio nella vicina Olanda. D’altra parte Emanuele Tesauro, il grande letterato barocco italiano, intitola nel 1654 la sua opera più conosciuta, quasi un “manifesto” del barocco come lo conosciamo, Il cannocchiale aristotelico, dove la metafora, l’acutezza e l’ingegno acquistano per la prima volta nella storia il loro grande prestigio. Il vero problema, tornando al nostro scrigno, è che esso è chiuso. La domanda è: a cosa può mai servire un cannocchiale per vedere all’interno di una scatola chiusa? L’ottica, se lo osserviamo bene, è inversamente proporzionale a quella di Galileo, dove il cannocchiale punta invece verso gli astri, aprendosi all’infinitezza di altri mondi e scoprendo, tra le altre cose, i crateri lunari: qui il cannocchiale – una semplice lente – punta a un interno buio e serrato. Un altro complesso ossimoro dell’età dei riccioli e della meraviglia? Può darsi, ma come in ogni buon ossimoro, dietro c’è una verità.
All’interrogativo “cosa c’è prima del cinema?” molti rispondono: la fotografia. Il cinema(tografo), lo si sa, sembra ormai avere una data di nascita acclarata: 1885. E persino il nome di un “inventore”, anzi due, nel cui luculento suono ormai si confondono le sillabe del cinema stesso, les frères Lumière. D’altra parte senza la fotografia o ciò che ci assomiglia (almeno l’incredibile scoperta del signor Daguerre – il dagherrotipo per l’appunto – che ha reso un servigio immenso alle arti, secondo il pittore francese Delaroche) quale cinema potrebbe mai esistere? Sarebbe un po’ come dire inventare la lampadina prima della scoperta della luce elettrica. In un certo immaginario comune sembra, insomma, che ci sia consequenzialità diretta tra la fotografia e quelle fotografie in movimento che possono diventare un treno a vapore che rischia di fuoriuscire dallo schermo e travolgere l’intero pubblico di una sala cinematografica, e prima di questo nulla. Se allora esistesse una preistoria del cinema – un precinema – con radici salde ben prima dell’Ottocento – nel Settecento, magari nel Seicento –, questa sarebbe storia della fotografia e non tanto del cinema. Niente di più falso.
A cosa puntava quel cannocchiale anversano? Se si guarda all’interno del cannocchiale si può osservare, tramite un gioco di specchi e l’aiuto di una fonte di luce esterna (posizionata dietro allo scrigno), un’immagine viva. Viva non tanto perché in movimento, ma perché tridimensionale. Il gioco funziona tramite la prospettiva e la profondità che da questa deriva. Un esempio che può farci capire meglio questo gioco è quello della profondità di un palcoscenico e della relativa scenografia data dalle quinte teatrali che, stratificandosi una dopo l’altra come una specie di fisarmonica, creano proprio la profondità e la distanza tra gli oggetti. Ma se vi è mai capitato da bambini di avere tra le mani quelli che gli inglesi chiamano pop-up books, si capisce ancora di più cosa si intende. Conosciamo questi “ambienti” con il nome di diorami. Ne esistono tanti e di ogni sorta. Generalmente in carta dipinta a mano o stampata, si possono trovare in miniatura nei negozi di souvenirs, pieghevoli e facilmente montabili e smontabili; si trovano all’interno di teche di vetro, osservabili nella loro varietà e profondità semplicemente posizionando il viso al centro della teca; si trovano all’interno di vecchi scrigni, più pregiati e costosi, proprio come in quello di Anversa, oggi oggetti di un mondo incantato e scomparso patrimonio di musei e di aste d’arte. Raffigurano paesaggi, case, battaglie. Moltissimi sono diorami teatrali, cioè riproducono una scena teatrale in miniatura. Tra questi ultimi ci sono i cosiddetti teatri di carta: l’Ottocento ne è pieno ma, conoscendo l’amore che ha l’inventiva settecentesca e secentesca nel campo dei giocattoli, si può pensare che la sua origine sia più datata. Balocchi, probabilmente per bambini benestanti che li amavano particolarmente (un aneddoto racconta che persino il Re Sole, da bambino, si fece costruire dal suo tutore Camus un cocchio semovente), miniature in scala dei grandi teatri, con tanto di vivaci e ricchi dettagli dipinti su carta e riferimenti a grandi compositori quali Mozart e Rossini o a scrittori come Shakespeare e Cervantes, da osservare a lungo o semplicemente da tenere in casa come oggetti decorativi, talvolta, come nel caso del diorama nello scrigno, particolarmente preziosi e pregiati nella fattura.
La letteratura in lingua italiana a riguardo è assai scarsa. Sappiamo poco su questi oggetti. Un nome però, dietro agli artisti che erano gli architetti di questo mondo onirico e infantile, lo abbiamo, quello del tedesco Martin Engelbrecht, che visse a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Engelbrecht era un incisore, figlio di un venditore di strumenti per pittori. Si occupava essenzialmente di arte ornamentale e, operando inizialmente ad Augusta, in Baviera, col fratello Christian, aveva particolare predilezione proprio per le vedute e i paesaggi, con un gusto spesso onirico e allegorico. Fece centinaia di opere che oggi troviamo davvero sparse dappertutto (in Italia ce ne sono tracce, ad esempio, a Firenze), soprattutto in Germania e in Austria. Non è difficile incappare in un suo lavoro nelle aste o, come nel caso di Anversa, nelle case private dell’epoca.
Il diorama nello scrigno non è l’unico esempio di questa tendenza a miniaturizzare paesaggi o ambienti altrimenti facilmente dimenticabili in assenza di una fotografia che li ricordi. Oltre a quelle particolari immagini dove, tramite un gioco esterno di luci, si poteva osservare la veduta di un paesaggio passare letteralmente dal giorno alla notte (con tanto di finestre delle case illuminate), un caso lampante è quello del cosiddetto Mondo nuovo, altro eccezionale strumento ottico rivolto all’intrattenimento. Data la grandezza rispetto agli oggetti casalinghi già incontrati e data la portata della novità, sappiamo con certezza che il pubblico fu talmente entusiasta di posare gli occhi all’interno di questo strumento, che si pagava chi ne possedeva uno per utilizzarlo, magari anche all’aria aperta. Ce lo attesta Goldoni nella commedia metateatrale I rusteghi, del 1760, dove Lunardo indica proprio tra le sue abitudini giovanili, condivise col padre, proprio quella di pagare per vedere dentro al Mondo nuovo.
Enormi “bauli” di legno per viaggiatori fantasiosi, con all’interno la veduta di un paesaggio illuminata, come sempre, da una fonte di luce esterna. Nell’Europa settecentesca non era difficile trovare chi, spostandosi di paese in paese, si portava letteralmente a tracolla questi grandi cassoni, perché il pubblico curioso potesse osservare quale veduta mostrassero, se di questa o quella città che, chissà, magari avevano solo sentito nominare senza averla mai vista. Un bello spettacolo per chi non ha mai visto Parigi e non può averne una fotografia! Anche le vedute del Mondo nuovo avevano la possibilità “dinamica” di poter essere viste, tramite l’ausilio di luci e fili, con effetto giorno-notte, e persino con l’aggiunta di animazioni marionettistiche. L’atmosfera ricorda ante litteram quello che sarà il kinetoscopio di Thomas Edison del 1888, l’antenato del proiettore cinematografico. Un utilizzo topico del Mondo nuovo fu quello propagandistico che ne fecero coloro che assistettero alla Rivoluzione francese, portando in scena eventi storici reali che documentassero particolari accadimenti, come la stessa decapitazione di Maria Antonietta. Così, d’altra parte, si andava “al cinema” a cavallo tra il secolo dei Lumi e quello dei fratelli Lumière.
Ma se vogliamo avvicinarci alla meta finale, un Mondo nuovo “in negativo” è nient’altro che l’oggetto più celebre di tutto il precinema: la lanterna magica. Perché “in negativo”? Perché funziona esattamente alla maniera inversa del Mondo nuovo: dagli interni inaugurati coi diorami si passa all’esterno, proiettando immagini di solito dipinte su vetro (come delle diapositive) su una parete o su uno schermo. È citato nel Wherter goethiano come termine di una metafora, quella della lanterna magica priva di luce, che assomiglia a un mondo senza amore: figura incantevole che paragona il buio di un mondo senza affetto a quello popolato da immagini ora magicamente apparse grazie a una fiamma che la proietti su uno schermo.
Ci sono lanterne magiche nel Seicento, tramite, forse, un influsso della Cina (dove i giochi di luce sono antichi, celebri e assai suggestivi) e degli arabi, e continuano ad essercene nel Settecento e nell’Ottocento. Le immagini proiettate sono le più varie: immagini di fantasia, storie, vicende storiche, immagini horror e spaventose, immagini pornografiche, immagini didattiche, i draghi come le tigri, gli scheletri come le figure umane, la presa della Bastiglia e le fiabe, i demoni e le fiamme dell’Inferno… La cosa stupefacente è che si proiettano anche le prime immagini in movimento, e Proust, nella Ricerca, parla proprio di queste lanterne magiche, così come ne possiamo osservare una nel bellissimo Fanny e Alexander di Bergman, nella scena in cui i bambini, durante la festa, si ritirano in camera per osservare con la lanterna magica lo spettacolo raccapricciante di un fantasma che fa letteralmente saltare la sorellina dalla paura. Laura Minici Zotti ha raccolto per il Museo del precinema di Padova dozzine di lastre e lanterne magiche meravigliose, alcune a più lenti, oltre che a esemplari di diorama, Mondo nuovo e altri incantevoli oggetti del precinema, quali il taumatropio, il fenachitoscopio, lo stereoscopio, lo zootropio, il prassinoscopio.
Un mondo, quello del precinema, che fa ragionare sulla filosofia che sta dietro al dettaglio, al sogno di chi non guarda le stelle kantiane o gli infiniti mondi di Bruno né di chi prova già le vertigini dei romantici, ma di chi applica alla lettera quella frase pronunciata da Amleto che afferma, nell’atto II della tragedia shakespeariana, di poter vivere confinato nel guscio di una noce e sentirsi monarca di uno spazio senza fine. Osservare all’interno di una scatola i dettagli minuscoli e minuziosi di un incisore, sentire la propria testa più grande del paesaggio che si ha di fronte, ed eppure percepirsi piccolissimi.
Una dialettica tutta intrisa di Barocco, se il Barocco è anche quello dei numeri infinitesimali e delle monadi di Leibniz, veri gusci di noce profondissimi e animatissimi al loro interno, da cui osservare, grazie a un gioco di specchi e di luci e di ombre, tutto il mondo che se ne sta di fuori, nient’altro che la proiezione di una lanterna magica. È strano come un meccanismo così statico e, per questo, anticinematografico come quello dei diorami di Engelbrecht – immagini immobili e chiuse – possa essere capace di un tale dinamismo, che sa già tutto di cinema. In favore di chi viaggia con i piedi per terra, di chi vede una polis in un formicaio e un regno in una noce. La grandezza del piccolo, insomma, la vittoria di Davide contro Golia. Nei dettagli, forse, c’è già tutto il resto?
Alessandro Montefameglio-L’intellettuale dissidente