Il primo impatto di Pietro Germi con il mondo del cinema è all’insegna dello scontro. Scartato dalla commissione del Guf di Genova, incaricata di effettuare una prima selezione di candidati ammissibili al concorso indetto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Branca Registi, non si dà per vinto e scrive una lunga lettera per protestare contro quel risultato a suo avviso sommamente ingiusto. Siamo nel 1937, Germi ha 23 anni e un bellicoso talento per l’esercizio dello sdegno, accompagnato da un’indole ribelle che il tempo potrà solo confermare. A dieci anni esatti da quella bocciatura, al “caso” del candidato Germi si aggiunge il “caso” Gioventù perduta, scatenato da un’altra lettera e destinato a rimanere unico, nella carriera del regista genovese, per il massiccio sostegno trasversale ottenuto anche – soprattutto – a sinistra, nel corso di una vera e propria campagna di stampa contro la censura. Portato a termine nell’autunno del 1947, il secondo lungometraggio di Germi ne è il protagonista indiscusso e forse ottiene il nulla osta, nel gennaio del 1948, anche grazie a questa imponente mobilitazione.
Tutto sembra avere inizio, appunto, da una lettera, firmata da 362 fra registi, sceneggiatori e intellettuali dello spettacolo appartenenti agli schieramenti più diversi, e inviata ai giornali romani martedì 9 dicembre 1947 per denunciare «l’approssimarsi di un pericolo […] una tendenza a ripristinare la consuetudine fascista di controllare la produzione dei film […] una vera e propria censura di carattere
ideologico e politico». Eccone i passi più salienti:
Non è abbastanza noto in Italia che oggi il nostro cinematografo è stimato da tutti […] il più interessante cinematografo del momento. Le riviste, le rubriche cinematografiche dei quotidiani inglesi, francesi, americani, sono piene di articoli su Roma città aperta, Sciuscià, Vivere in pace […]. A parte il valore artistico di questi film, bisogna riconoscere che il segreto del loro successo sta in quell’aria di sincerità che vi spira, irrefrenabile reazione a venti anni delle anzidette censure. I nostri migliori ambasciatori sono stati questi nostri film, che hanno portato in mezzo alle popolazioni straniere l’immagine viva delle nostre sofferenze e della nostra umanità: ed hanno capovolto, in molti casi, l’opinione pubblica in nostro favore. Questo magnifico inizio, questa promettente apertura di credito sul mercato cinematografico internazionale
rischia di venire stroncata. Man mano che l’illegale censura di cui abbiamo parlato interviene nella nostra produzione, si chiudono lentamente, quasi insensibilmente, porte e finestre alla fresca aria della realtà, la nostra ispirazione è soffocata, il nostro lavoro manca di motivo e di scopo. Continuando così, […] il nostro rinascimento cinematografico sarà un ricordo. […] Bisogna reagire prima che sia troppo tardi. Ogni giorno che passa è un nuovo fatto, una nuova minaccia, un taglio nel montaggio, una osservazione sulla sceneggiatura, una modifica, un suggerimento, una telefonatina. “Oggi Sciuscià non sarebbe uscito!” avrebbe detto, vantandosi, un funzionario del Ministero ad uno di noi. Eppure Sciuscià, conclude la lettera, «per concorde giudizio di molti […] è un capolavoro nella storia del cinematografo, è forse il migliore film di questo dopoguerra, in tutto il mondo».
Il 10 dicembre 1947, l’edizione romana de «L’Unità» ne pubblica il testo integrale in prima pagina con un titolo roboante: La dittatura D.C. attenta all’arte e alla libertà. I registi italiani denunciano l’imbavagliamento del nostro cinema. E il 14 dicembre ospita un intervento di Marco Cesarini intitolato L’antifascismo non piace al minculpop D.C., di fianco a una foto di scena di Gioventù perduta sovrastata dal titolo Andreotti non li vuole e accompagnata da una didascalia dove fra l’altro si legge: «Il film Gioventù perduta è stato rigidamente censurato dal governo democristiano il quale non ama sentir parlare di colpe del fascismo. C’è qualcuno che a questo proposito ricorda la storia della coda di paglia». Nel suo articolo Cesarini affronta tre casi: Gioventù perduta, La Marsigliese (La Marseillaise, 1938) di Jean Renoir (al vaglio della censura proprio allora) e un cortometraggio prodotto dal PCI, che in quel contesto è forse il vero quanto dissimulato oggetto del contendere. Tre casi scelti «fra i tanti», sostiene Cesarini; ma è Gioventù perduta il film a cui si dà maggior risalto, nonché il solo di cui si pubblica ben in vista una foto “posata”. Scrive Cesarini:
Il film Gioventù perduta del giovane regista genovese Germi racconta – o avrebbe dovuto raccontare– una storia tipica del nostro dopoguerra: il delitto di un giovanotto di buona famiglia, di uno di quei ragazzi che appunto si dicono “perduti”, dei cui casi squallidi e crudeli son piene purtroppo le cronache di tutti i giornali. Diciamo “avrebbe dovuto raccontare” perché il film non è stato approvato dalla Commissione di Censura esistente presso l’Ufficio Centrale per la Cinematografia del ministro degli Interni e ben difficilmente passerà al vaglio della Commissione di Appello istituita presso lo stesso ente, entrambi dipendenti dal ferrato cervello del giovane sottosegretario democristiano on. Andreotti. La motivazione fornita dai funzionari democristiani per il veto posto a quest’opera d’arte è stata la solita che ogni censura, da che mondo è mondo, […] ha sempre adoperato: immoralità, pittura troppo cruda e quindi pericolosa della realtà, eccetera. […] La realtà, naturalmente, è un’altra. Il fatto è che il film di Germi, oltre a essere bello, è un film antifascista, un film dotato di una sua tesi e di un suo preciso contenuto: esso vuol mostrare, partendo dalla cronaca, […] come l’educazione che il fascismo ha saputo dare per venti anni ai nostri giovani si sia risolta nella distruzione completa di ogni fondamento, nella sovversione assoluta dei valori e della moralità […].
Quindi, dopo essersi soffermato anche su La Marsigliese e sul cortometraggio suddetto, Cesarini lamenta che il «giovane sottosegretario» responsabile «di simile situazione» non abbia ancora risposto alla lettera inviata ai giornali dai «registi italiani», forse per «colpa dello sciopero generale o forse della mancanza di argomenti». Il giovane sottosegretario in questione, ovvero Giulio Andreotti, risponde in realtà proprio quel giorno, 14 dicembre, sulla prima pagina de «Il Popolo». In un articolo intitolato Paure di registi, si dichiara «dolorosamente sorpreso» dalla «pubblica sollevazione di un numeroso gruppo di autorevoli registi cinematografici contro non si sa bene qual piano di soffocamento della libertà e dell’arte», visto che con «più d’uno tra i firmatari» afferma di aver avuto molte occasioni d’incontro «per questioni di ministero» e ritiene di aver semmai ecceduto «(se pur lo si può) nel rispetto […] geloso della personalità e della libertà di ciascuno, senza chieder mai a chicchessia qual tessera egli abbia in tasca». Prosegue insinuando che «l’atmosfera di cordialità e di reciproca comprensione che regna nelle commissioni […] fra Governo e rappresentanti delle contrapposte categorie non è ben visto nel segreto delle oscure botteghe», come gli avrebbe confidato un amico. E invita i firmatari della lettera di protesta a «uscire dal vago e dal pettegolezzo, per discutere pubblicamente su dati concreti e fatti obiettivi», poiché:
La revisione delle pellicole non è un fatto illegale né un fenomeno del fascismo. […] Allo stato degli atti nessuno può dimenticare che l’Assemblea Costituente nel discutere sulla legge cinematografica non ha affatto abolito la censura, ed anzi proprio da sinistra è venuta la prima voce al momento del dibattito sulla libertà di stampa, per invocare misure preventive a limitazione della libertà stessa quando siano in giuoco l’educazione dei giovani o la tutela del senso morale. Le leggi sono chiarissime e a noi non spetta che applicarle […]. In via di fatto però due sole volte, in sei mesi e su centinaia di films, si è dato visto contrario alla programmazione. Nel primo caso per un cortometraggio di propaganda politica contrastante in modo palese all’ordine pubblico e fuori di dubbio provocatorio; nel secondo caso – in cui la misura è stata presa con dolore trattandosi di un lavoro artisticamente pregevole – si era di fronte a una vera e propria scuola di delitto mostrandosi fin nei più piccoli particolari l’organizzazione criminosa di una banda di giovani studenti romani votatisi alla delinquenza di stile post-bellico. L’influenza perniciosa specie sui giovani di questo film sarebbe così evidente che a me sembra strano come non vi abbiano posto attenzione, sia il produttore […] sia il regista.
Andreotti nega perciò che nel provvedimento adottato vi sia alcunché «di ideologico in senso politico o di gretto dal punto di vista spirituale», così come «nel consiglio preventivo di non produrre un film dato dagli uffici alla Lux [casa di produzione di Gioventù perduta] in questi ultimi tempi»; avanza il sospetto che la difesa di film come Sciuscià sia solo un alibi per la perdita d’ispirazione; e conclude assicurando che «ogni sforzo verrà fatto per aiutare la cinematografia italiana a vivere, anche internazionalmente, di continua produzione e non di rendita più o meno connessa alla guerra». Cesarini sferra il suo contrattacco su «L’Unità» del 17 dicembre con un articolo intitolato Il cervello di Andreotti pensa per tutti quanti gli italiani, dove si premura di sottolineare che il sottosegretario ha risposto in ritardo alla lettera dei registi protestatari e con parole piene «di malata ipocrisia […] chiedendo “dati concreti e fatti obiettivi” a documento delle accuse»; elenca tali «dati concreti e qualche fatto obiettivo» replicando quanto già scritto tre giorni prima, fra l’altro che il film di Germi è stato censurato perché bello e antifascista; e aggiunge:
Il padre del giovane delinquente di Gioventù perduta è un professore universitario di statistica. Ad un certo punto […] dimostra dalla cattedra che, dopo ogni guerra, sono i membri della classe della grande borghesia a fornire il maggior numero di nuovi delinquenti. Il professore aggiunge che questo dato può essere assunto come sintomatico e rivelatore del fatto che in un futuro non molto lontano non potranno più essere quei ceti così moralmente corrotti a governare gli altri. Altro che immoralità!
Il contrattacco di Cesarini è però solo uno dei tanti. La mobilitazione è così capillare e la partecipazione al dibattito così varia e altisonante – sempre su «l’Unità» interviene ripetutamente anche Umberto Barbaro – che il settimanale «Tempo» dedica un lungo articolo al riassunto dell’intero “caso”, spalmato su due pagine e accompagnato da ben sette foto di scena corredate da una breve descrizione dell’azione rappresentata, quasi a voler mostrare il film censurato di cui si parla tanto. Lo firma Virgilio Tosi, che introduce la vicenda descrivendo il «sommovimento» provocato nelle acque della cinematografia italiana da una «paroletta sola, piccola ma pericolosa […]: censura»; prosegue evocando le leggi in vigore e le manovre di corridoio precedenti lo scoppio della «bomba o bombetta dell’ormai famosa lettera», i cui firmatari qui lievitano fino a diventare 42; ne cita i passi in difesa della «produzione cinematografica di carattere realistico»; cita testualmente anche la risposta di Andreotti e illustra le successive reazioni delle diverse parti in causa, tra cui i produttori «i quali, pur non avendo nessun motivo politico di attaccare il Governo, si scagliano con ferocia sulla censura, al grido di “governo ladro!”, perché si sentono toccati nel vivo dei loro interessi»; e soprattutto prende le difese del film, «la cui proibizione non è certo l’unico ma [è] comunque il più importante motivo di polemica con l’attuale censura cinematografica» e il cui valore artistico è «ampiamente riconosciuto anche e soprattutto dal censore», il quale peraltro è «uno dei pochi» che hanno visto il film.
Per Gioventù perduta, infatti, parallelamente alla censura preventiva praticata nelle sedi deputate, sui giornali viene praticata la recensione preventiva. La esercita persino Guido Aristarco, che in futuro non sarà tenero con Germi, ma in questa occasione, pur di attaccare la censura democristiana, difende il film sul quotidiano «La Provincia» scrivendo:
Se esiste una immoralità del cinema […] la censura è una immoralità ben più grave; ed è proprio quella censura che oggi avrebbe impedito l’uscita di Sciuscià, soltanto perché il capolavoro di De Sica è un “reportage”, realistico e artistico, che denuncia i metodi adottati nei carceri minorili, le colpe dei grandi verso i più piccoli, dei genitori verso i figli. Questa stessa censura ha posto il veto, ora, a Gioventù perduta […] che indaga su un altro amaro e dolorante fenomeno del dopoguerra, ed è parsa a qualcuno immorale […] e comunque da non esportare in quanto “rappresenta lati negativi dell’Italia”.
Ma cosa sta succedendo esattamente? Di sicuro sono già in corso le prove generali di quella che sarà la campagna elettorale più infuocata della storia repubblicana. Qualche mese dopo, il 18 aprile 1948, ci sarebbero state le prime vere elezioni parlamentari e già dal maggio 1947 il clima politico era sensibilmente mutato. Il giorno 13 di quel mese Alcide De Gasperi si era dimesso, ponendo fine al terzo governo di coalizione da lui presieduto e che come i due precedenti aveva visto governare insieme democristiani, comunisti e socialisti; diversamente dal quarto governo De Gasperi, varato il successivo 31 maggio, che apre a nuove alleanze centriste estromettendo comunisti e socialisti.
Tre giorni dopo le dimissioni di De Gasperi, il 16 maggio, l’Assemblea Costituente aveva approvato la legge n. 379 che riconfermava l’istituto della censura secondo le norme previste dal Regio Decreto 3287 del 24 settembre 1923, attraverso l’esercizio di due commissioni, una di primo e una di secondo grado. Ad occuparsene, il quarto governo De Gasperi chiamerà di lì a poco Giulio Andreotti, nominandolo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo. Infine, ma non da ultimo, l’Ufficio Centrale per la Cinematografia respinge la richiesta di nulla osta per Gioventù perduta, presentata dalla Lux Film il 19 novembre 1947. Il fatto ottiene un’enorme risonanza, specie per le ripercussioni che il nuovo andamento rischia di avere sulla produzione nazionale.
Di certo è un’esperienza oltremodo difficoltosa anche per il giovane Andreotti, se il 22 gennaio 1948 annota nel suo diario – accanto a riflessioni sulla situazione delle industrie italiane, i problemi del mondo agricolo, il dibattito sull’IRI e l’incontro triangolare con francesi e inglesi – questa breve frase: «Ho invitato il regista Pietro Germi ad assistere alla seduta d’appello della censura cinematografica
sul film Gioventù perduta. Con qualche lieve taglio: nulla osta. Un compito per me ancora nuovo e difficilissimo».
Difficilissimo, per noi oggi, è ricostruire com’è andata veramente. I documenti rinvenuti sono ancora pochi. Ma in parte sufficienti per sfatare alcune leggende e formulare qualche ipotesi indiziaria. Proprio a partire da quel maggio 1947.
È in ogni caso evidente che in Gioventù perduta le dinamiche psicologiche scaturiscono dalla trama e poggiano su una distribuzione del sapere decisamente hitchcockiana. Lo spettatore, infatti, è sempre più informato dei personaggi, i quali peraltro – come lamenta molta critica del tempo – sono fin troppo modellati su rigide logiche di genere, a dispetto di un ribaltamento della simbologia tradizionale che vorrebbe il cattivo Stefano un personaggio scuro, mentre non solo è biondissimo, ma è sempre vestito di chiaro, anche quando uccide Maria (che indossa un abito nero, identico a quello indossato nel finale dalla protagonista de L’ombra del dubbio). Maria che senza occhiali non ci vede, ma in presenza di Stefano se li toglie; infatti non vede chi è Stefano veramente, proprio come Lina, altra celebre eroina hitchcockiana interpretata da Joan Fontaine in Suspicion (Il sospetto, 1941). Stefano invece ci vede benissimo ed è all’origine di numerose soggettive, hitchcockiane anch’esse. Esemplare, fra tutte, quella in cui verso il finale, dall’alto della sua stanza, vede giù in strada un poliziotto che lo sta piantonando, perciò lo raggiunge e freddamente lo urta, per smascherarlo, farsi seguire e poi riuscire a pedinarlo; esattamente come zio Charlie all’inizio de L’ombra del dubbio.
Non per caso, il film doveva chiamarsi A sangue freddo: un titolo a cui la produzione deve probabilmente rinunciare perché già attribuito all’edizione italiana del poliziesco Johnny O’Clock (1947) di Robert Rossen. Anche la sequenza che contiene la frase incriminata dalla censura rappresenta un importante snodo narrativo. È una sequenza breve, a struttura circolare, ambientata nell’aula dove si svolge la lezione di statistica: inizia e termina quando Stefano arriva e si allontana.
Bibliografia: Il cinema di Pietro Germi, a cura di Luca Malavasi ed Emiliano Morreale