Con Céline, come afferma lo scrittore siciliano Stefano Lanuzza nel saggio Céline, testimone dell’Europa, opera imbastita come un dibattito in cui studiosi e lettori pongono domande all’autore su vita e opera di Louis-Ferdinand Céline, non si evoca uno scrittore facile, consolatorio, o di consumo, che ha bisogno di lettori forti che vanno liberandolo dalle panie di una iconografia ideologizzante da troppo tempo focalizzata su un antisemitismo che nell’opera céliniana rimane al margine. Diventa poi superfluo ripetere che i libri di Céline nascono con lo scopo di evitare l’entrata in guerra di una Francia militarmente inadeguata nella seconda guerra mondiale voluta da Hitler. Da ignoranti e false idee ogni lettore si potrà liberare cominciando ad affidarsi agli odisseici percorsi del capolavoro Viaggio al termine della notte, metafora della condizione degli uomini condannati ad andare, senza sosta, sempre avanti verso il loro destino, in fondo alla notte. Ma tutti i libri di Céline sarebbero da porre in relazione con il Voyage. Ma ci fosse oggi uno scrittore come Céline nel nostro Paese assillato dalla crisi, assopito nel consenso e in una restaurazione culturale che sta all’origine della letteratura di consumo e per passatempo: un paese affollato tra loro simili, ininfluenti e dediti a rincorrere i premi letterari. Ci fosse in Italia un Céline che viaggia sempre a proprio rischio e pericolo.
Céline dunque era eretico ed anarchico? Indubbiamente, e nichilista? Certo ma verso lo stato di cose: verso il falso amor di patria e la balorda esaltazione delle virtù guerriere, verso l’infamia delle guerre combattute dai poveri a esclusivo vantaggio degli interessi capitalistici e delle classi sfruttatrici, le retoriche patriottiche e i deliri nazionalistici. In questo senso il Voyage è un romanzo contro il colonialismo predatore, lo sfruttamento nella fabbriche, la povertà sordida e senza speranza nella povera gente delle metropoli degradate.
Rimasto segnato dall’esperienza militare, Céline si accanisce in un’amara critica verso i popoli che non progrediscono moralmente, ma da sempre operano contro loro stessi. Secondo lui non è sicuro che gli uomini nascano infelici, condannati al dolore da una sorte malvagia: è più vero che la colpa della loro sofferenza derivi dalla loro bramosia di suicidio, da un impulso di morte ispiratore di ogni conflitto e tirannia.
Insieme a pochi altri autori e anche se talora dimenticato da critici usi a fissare inopinati canoni, Céline deve essere considerato come uno tra i più grandi protagonisti della letteratura moderna. Lo è, oltre che per le sue innovazioni linguistiche e lo stile unico, per aver offerto con la sua opera un quadro illuminante dei fenomeni sociali e storici dell’Europa del Novecento. Ma l’equivoco dell’antisemitismo di Céline è stato definitivamente chiarito? Come risponde Fagioli alla domanda di Guerrieri, l’ostilità di certi ambienti letterari nei confronti di Céline si è manifestata, ancora prima che lo scrittore pubblicasse i propri libri antisemiti a causa della sua posizione contro l’estetocrazia della casta dominante. Secondo un altro protagonista di questo dialogo immaginario, Bernardi Guardi, l’antisemitismo di Céline è fatto di accensioni virulente, si scatena come una tempesta di denunce ed ingiurie, sembra quasi rivendicare un paradossale diritto di manifestarsi senza alcuna remora. Interviene Horn affermando che nel contesto di una storia contraddistinta da guerre continue, come si sarebbe posto oggi il pacifista Cèline davanti all’interminabile conflitto Israele-Palestina?
Inoltre, in base ai dati, non può non apparire singolare il caso di Céline accusato senza prove da Sartre. A contraddire il filosofo di L’Essere e il nulla, a distanza di anni prende la parola l’artista Jean Dubuffet che sostiene che l’avversione di cui è stato fatto oggetto Céline emerge molto prima della denuncia delle sue opinioni contro gli ebrei. C’è da credere che per le conventicole letterarie, l’antisemitismo e l’avversione di Céline nei confronti di una mentalità radical-massonica dominante in Francia, siano appigli sufficienti per tenere distanti un outsider, un anomalo ed irregolare, un bastian contrario isolato che comunque sopravanza di una spanna gli scrittori suoi contemporanei. Non appartenendo a nessun partito, a nessuna cricca, nessuna conventicola, sono praticamente solo? Si interroga Céline già nel 1936 in una lettera a <<Le Merle blanc>>. Lui è un emarginato tra i francesi che, durante il regime di Vichy, nella persecuzione già combattenti per la Francia durante la prima guerra mondiale, sono ancora più zelanti dei tedeschi. Mentre Pétain applica contro l’intera comunità ebraica leggi ancora più repressive di quelle naziste. C’è quanto basta per convincersi che Céline, a parte i suoi torti d’opinione, resti una vittima dell’ipocrisia del potere, questo davvero alacre collaborazionista.
Nel famigerato Bagatelle per un massacro, che alla sua uscita è gradito sia alla destra che alla sinistra, Céline sostiene che lui scrive a beneficio dei francesi e precisando la propria distanza dal credo fascista. Si crede che la condanna contro Bagatelle sia dovuta ai suoi contenuti quanto parrebbe accendere l’indignazione, è il modo, ossia la forma che è sostanza artistica che lo scrittore conferisce a un libello redatto con la tecnica del poema satirico in prosa. Bisogna inoltre sottolineare che sionismo ed ebrei non sono la stessa cosa. Vi sono infatti ebrei che non si proclamano sionisti. Il Sionismo è un movimento politico che ha preso il sopravvento nella società ebrea al punto che la gente comune crede che quando qualcuno sfida il Sionismo, si stia schierando anche contro gli ebrei.
Al seguito degli antisemiti che lo anticipano (tra cui Shakespeare, Dickens, Benn, Jung, Heidegger), ecco Céline dichiararsi antisemita: “Sono diventato antisemita” annuncia in Bagatelle, diventato, che sta a significare che prima non lo era. La spiegazione più immediata all’ostracismo patito da Céline può rimandare all’isolamento dello scrittore rispetto alla società letteraria parigina, soprattutto quella di una sinistra stalinista rimasta spiazzata dopo l’uscita di Mea culpa, un’autocritica profonda e un’accusa contro il bolscevismo.
Poiché nel Primo novecento francese non sono pochi gli intellettuali e gli scrittori antisemiti, alcuni di loro blandi o meno conosciuti collaborazionisti, (Béraud, Chardonne, Alphonse de Châteaubriant, Maurras, il paradossale ‘fasciocomunista’ Jacques Doriot, Montherlant, Jean Giono, nonché Morand, Jouhandeau, Anouilh, Giraudoux, Sachs, Gide, Mauriac, Gaxotte, Simenon da giovane…) – l’impressione che ogni volta Céline finisca per essere assunto in esclusiva quale pharmakos/‘capro espiatorio’: al pari del più sfortunato Robert Brasillach sbrigativamente passato per le armi ad Arcueil il 6 febbraio 1945.
Ancora oggi sembra che a Céline si dia la caccia per lavare la coscienza sporca della Francia ottusamente antisemita del ‘caso Alfred Dreyfus’ (1894-1906), il capitano alsaziano-ebreo ingiustamente accusato d’intesa col nemico tedesco, oltre che per far obliare l’antisemitismo e il filonazismo della Repubblica collaborazionista di Vichy capeggiata da Pétain che Albert Camus chiama “traditore della Francia” (“Combat”, n. 58, luglio 1944).
Malgrado tanta ordalia e lo ‘stridor di denti’ degli implacati censori, i libelli vietati di Céline, seppure privi di curatele critiche, restano reperibili su Internet sia nella lingua originale, sia in traduzione. Volendo, li si legga come – poniamo – si possono leggere le pagine del ‘reazionario’ e grande Gadda: per l’indubbia qualità artistica della loro lingua, cioè per lo stile che, senza separarsi dai contenuti talora insopportabili, riscatta un autore tra i maggiori del Novecento. Lo stile, conta nient’altro che lo stile: l’unica cosa – Céline tiene sempre a spiegare – per cui valga la pena di scrivere.
Bibliografia: Stefano Lanuzza, Céline, testimone del’Europa
Stefano Lanuzza: Lucette, Céline, Gallimard e la censura