«Uno, poi due, poi quattro, poi otto e ancora avanti, fino a plasmare tutta la vita del pianeta, forse dell’Universo. Tutta la vita terrestre è riconducibile a pochi prevedibili numeri?» La progressione geometrica della mitosi cellulare è scandita in apertura di questo Annihilation dalla protagonista, la biologa Lena interpretata da Natalie Portman. La vita per lei si è appena fatta molto complessa: il marito, militare disperso in azione e dato per morto, è tornato a casa insperatamente vivo, ma non parla ed è malatissimo. L’esercito preleva la coppia e la porta al limitare della misteriosa Area X, un’anomalia spazio/temporale (ma non solo) che sta lentamente ingoiando la costa meridionale degli Stati Uniti e nella quale l’uomo era stato impiegato per un’operazione segreta della quale è l’unico sopravvissuto. Assieme ad un team di volontarie, Lena parte all’esplorazione.
Sono queste le premesse narrative per la seconda regia di Alex Garland, il quale dopo il bellissimo Ex Machina (2014) dirige Annihilation, ispirato dal romanzo omonimo di Jeff VanderMeer e uscito in Italia direttamente su Netflix. C’è chi parla di capolavoro, chi invece di un film insulso – e a questi ultimi, soprattutto a chi lo condanna come “troppo lento”, consigliamo di dedicarsi alla visione di un Transformers a scelta: ne trarranno sicuro giovamento e si parla comunque di mutazioni. Per tutti gli altri, dobbiamo dire che no, probabilmente questo non è un capolavoro (ma il tempo lo deciderà, non noi), bensì di un film comunque estremamente interessante sul piano estetico. Tre le direttrici principali per analizzarlo e comprenderne i riferimenti principali.
La cornice di Annihilation è senza dubbio debitrice di Cuore di Tenebra: il viaggio verso l’ignoto, l’immersione in un progressivo straniamento, l’alienazione crescente rispetto al mondo esterno e normale. Il debito tuttavia è indiretto e passa per Foresta di cristallo, che di Cuore di tenebra è la versione fantascientifica firmata da quel genio di J.G. Ballard. L’opera viene omaggiata nel libro di VanderMeer con i nomi delle protagoniste e nel film di Garland con degli alberi appunto di cristallo che vedremo verso la fine del viaggio delle donne.
Non un viaggio iniziatico, ma di morte/rinascita, come Apocalypse Now!, che termina in un utero di terra, nel ventre della spiaggia in cui l’anomalia ha avuto inizio e dove la Portman, come un gamete giunge a fecondare l’ovulo deposto dalle stelle.
Il secondo enorme debito è al genio di David Cronenberg, filosofo estetico più che autore cinematografico. Garland non ha nulla della sensualità registica del canadese e anzi le scene più viscerali vengono rese con un distacco e una freddezza più deludenti che eleganti; ma i temi sono quelli sul quale il Maestro della Nuova Carne ha costruito la propria meravigliosa carriera artistica. La materia muta a livello cellulare dentro l’area X, animali si mescolano ad altri animali e ai vegetali, le rocce alle piante, il tempo si piega. Tutto contamina tutto.
L’area X è quindi un immenso tumore: non è dato sapere se benigno o maligno, ma senza dubbio Garland coglie l’aspetto creativo, innovativo e rinnovativo di questa mutazione. D’altronde l’evoluzione, fisica come ideale, non è un opera di innesto e modifica di quanto già esistente in precedenza? Gli strappi nella storia del pensiero non sono sempre nati da anomalie? Questo è forse l’aspetto sul quale Garland avrebbe potuto spingere ancora di più. Cronenberg, nel suo delirante Crimes of the future (1970), proponeva tra i suoi personaggi un uomo che cresceva volontariamente nuovi organi, che continuamente gli venivano espiantati. “I miei organi sono pianeti e il mio corpo è una galassia”, sosteneva delirante: c’è più carnalità in questa frase che in tutto il film di Garland, che invece (purtroppo) imbocca una via più minerale e vegetale per la mutazione, cercando di buttarla sulla metafisica. Ci riesce, ma ci saremmo divertiti di più con David (quando tornerà a fare un nuovo film? Forse mai…)
Morire come singolo per rinascere come multiplo: questo è il destino del gamete sessuale in procinto di farsi nuova vita, come pure della cellula sul limitare della scissione moltiplicatrice. L’uno che si fa due, nuovamente in uno spazio chiuso come già è successo in altre pellicole firmate (regia o sceneggiatura) da Garland: l’ultimo debito del regista è con sé stesso e con alcune riflessioni già proposte in Ex Machina. Gli uomini e le donne che percorrono il fiume di tenebra interiore attraverso la mutazione fino al faro dove tutto ha avuto origine si infilano in un ventre dal quale è impossibile fuggire e dove il regista mette in scena l’elegante allegoria di un’inseminazione. Nella progressione geometrica uno-due-quattro-otto-eccetera della mitosi cellulare, l’atto rivoluzionario è quello che conduce dall’uno al due. Il resto è conseguenza.
Cos’è la copia della cellula rispetto alla cellula madre? È lo stesso o è altro? La danza che la Portman inscena con se stessa, esito di una sequenza finale che da sola vale il prezzo dell’abbonamento di Netflix, è la rappresentazione coreografica del perturbante rapporto con il doppio: le nostre copie, i nostri figli, sono nostre mutazioni. Ma noi stessi siamo la mutazione quadridimensionale di noi stessi; lo capiamo esaminando la relazione tra Lena e il marito attraverso brevi flashback. Io sono io o sono la mia copia? L’enigma dell’identità, proposto in termini di pensiero e memoria in Ex machina (ma anche in Blade Runner 2049) è qui suggerito in termini fisici. Il nostro corpo muta continuamente, le nostre cellule muoiono e si riproducono, noi restiamo sempre noi stessi. Perché? Cosa ci rende noi? E se fossimo una galassia di noi differenti e mutanti?
Annihilation non è un capolavoro, ma forse diverrà di riferimento sotto molti aspetti nei prossimi anni. Le domande che pone sono molte e interessanti, anche se nessuna particolarmente originale; ma l’impatto estetico è meraviglioso, soprattutto nei minuti finali dove il combinato di immagini, musica e coreografia genera il primo musical meta-fantascientifico della storia del cinema: presa a sé questa sequenza è senza dubbio un gioiello artistico, una meravigliosa mutazione nel film e nel genere.
Fonte: L’intellettuale dissidente