Può essere interessante rileggere un saggio di taglio giornalistico tutto focalizzato su un’Europa che non c’è più ma che riserva ancora aspetti conoscitivi tali da essere sviluppati in testi apparentemente lontani. L’Europa semilibera di Guido Piovene proponeva nel 1973 una carrellata rapida ma incisiva sopra nazioni che già allora emanavano problemi istituzionali non secondari. Oggi tutto sembra essere mutato ma il dilemma di fondo era già nelle pagine francesi d’apertura: l’unificazione europea. Quale ragione ha di farsi – si chiedeva Piovene – sottolineando quel problema d’identità che affiancava un’unità tutta ancora da inventarsi a oggi secondo criteri non economicistici. Un’unità omogenea veniva rilevata per certi versi nell’area scandinava ma nel contempo trovava campo la consapevolezza di un’Europa disposta a considerare anche l’altro da sé: cercare di capire chi è diverso; pensiero che può tornare utile in una temperie di trapasso come la nostra dove assistiamo ad una fase di forte compressione dell’informazione verso forme liquidatorie di problemi complessi, sotto l’accelerazione di un sapere così frantumato da apparire irriconoscibile.
Ottusità, ritardi, violenze sfidano l’intelligenza, la razionalità, caratteristiche che già allora sembravano emergere dallo strano capitalismo cinese in grado di coniugare stato e mercato, mettendo in risalto le debolezze di una legislazione commerciale già troppo permissiva, a danno di quella cultura media che proprio la Francia ergeva nella cerchia della propria borghesia forse il lascito più speranzoso per un riflesso continentale minimamente adeguato. Una cerchia piuttosto mobile, che oggi vediamo ridotta e di molto, ma che Piovene certificava come una società evoluta, molto diversa a confronto di quella inglese, accreditata di una capacità di adattamento al mondo artistico, con il genio del bizzarro, in grado di screditare a vari livelli gli estremi sociali e ritrovarsi in una medietà anomala rispetto a quella francese e tedesca. Una medietà che offriva comunque un sistema universitario selettivo ma nel contempo non precludeva una certa quantità di anarchia che ha condotto verso una Londra cosmopolita ma depotenziata in prospettiva e ad ampie periferie in sofferenza, nell’incertezza della Brexit, periferie che comprendono anche la mossa Scozia, alla ricerca della propria indipendenza, della quale Piovene ci dà una splendida pagina di carattere naturalistico. La libertà personale diventa una problematica costante dei viaggi europei dell’autore, è la questione che più sta a cuore come un’ossessione pervasiva ai cittadini europei, quanto la libertà di coscienza in Olanda, che in modo esplicito considera le prostitute rispettabili lavoratrici in quanto puntuali con il fisco, e ove la pillola cautelativa – solo per fare un esempio – regge e domina il confronto con la querelle della verginità materiale della madre di Cristo, tema nettamente minoritario a confronto. Non erano quisquilie nel 1973 quando gli scricchiolii nel mondo cattolico se da una parte affermavano valori dall’altra cozzavano con la volontà di vivere liberamente per altre vie, pur rimanendo la spada di Damocle di cercare sentimenti e cuore per un’Europa sfuggente. Un’Europa orizzontale, federale, diffusa, decentrata, di densità omogenea si concretizzava permanentemente anche attraverso vuoti istituzionali, istituzioni alla deriva alla ricerca di nuove forme di rappresentanza. Sono discorsi che in Belgio, Piovene e non solo si sentono preconizzare insistentemente con la curiosa coincidenza che ci troviamo nelle zone di maggiore centralizzazione del potere europeo attuale.
La parentesi scandinava è molto interessante tra lo scorrere veloce di una Svezia pienamente consapevole della propria forza di marketing – una grande compagnia di assicurazione grazie a un welfare ora non più sostenibile con quel vigore – e si badi bene oltre la cornice del MEC e di una Unione Europea che andrebbe a minare equilibri di una compattezza partecipativa ricorrente. Ma anche peculiare e singolare negli atteggiamenti familiari e individuali, una Swedish way of thinking che si impone in via istituzionale a combattere persino la solitudine, nella forma più estrema. Un’ipertrofia della socialità, la definisce Piovene, con la natura ad impersonare il ruolo trascendente del divino. La Norvegia mantiene una mentalità marinara autentica, un profilo più “barbaro” della Svezia, di navigatori che sanno attardarsi in un gioco che avanza sicuro e autonomo, ma con meno autocompiacimento e più ruvidezza. La maestosità dei fiordi norvegesi tesse un ordito che lascia spazio all’immaginazione ma anche alla presenza più presaga di avventura complice e parzialmente prevedibile.
La Finlandia è un coagulo di certezze raffinate, di straordinarie vitalità appartate e quasi gelose di un’intimità naturale e molto autoctone, di architetture fisiche e mentali che hanno subìto l’influsso russo e svedese preservando una quasi intatta specificità culturale (l’arte dei cristalli è sapienziale). Qui l’Europa incontra qualcosa che le è proprio ma anche un accento diverso, uno spazio di laghi e betulle, tra rocce nere e boschi di una terra nazionalista, un’essenza speciale piena di sottigliezze e distinzioni che rifrangono uno stile sinuoso. La luce di Helsinki mostra la città più silenziosa e forse più bella del Nord. La Danimarca mantiene qualcosa del tratto tedesco nella sua cultura in un misto anglosassone e proprio: è stato il primo paese a sdoganare la pornografia e primordiali forme di poliamore. Piovene registra per tempo: siamo pur sempre nel paese di Andersen ma anche di Kierkegaard verrebbe da aggiungere, favola e una certa forma di misticismo si toccano. L’Irlanda è una tappa quasi turistica per Piovene che ha vissuto più volte tutti i paesi esplorati in epoche anche molto diverse – ciò avvalora una sorta di viaggio nel viaggio già complesso in un novecento multiforme – e tra gli alberi più belli d’Europa si stempera quella voglia di Europa, vedendo già l’illusione di un continente ancora da edificare, tra impressioni fresche e datate, ambizioni e illusioni che alludono a un futuro precario.
Lo splendidamente intatto dell’entroterra spagnolo vale ancora, come la speculazione edilizia della costa, ma quale balzo ha fatto la hispanidad odierna nel mondo, l’investimento sicuro ed efficace nel turismo e nell’agricoltura, nei trasporti di qualità, nel gusto igienico decoroso per chiunque frequenti beni pubblici e servizi. La Spagna ha virato con forti autonomie e un’attenzione speciale all’uomo – qualunque esso sia – che metta piede sul proprio suolo. La Spagna – scriveva bene non solo Piovene, ma Ortega, Unamuno, Giusso e molti altri – non è solo Europa e Africa, ma anche molto altro e soprattutto Spagna nella sua diversificata forma e sostanza. Popoli orgogliosi di essere parti decisive di una sedimentazione varia e ampia, ordinatissima nei suoi vigneti ed oliveti, persino commovente nel reale e concreto sussiego della Andalusia, con Granada e l’Alhambra allo zenit e la Giralda a Cordoba come torre eletta araba nel mondo per bellezza. Piovene ammira pure il Portogallo delle coste, un paese attardato ma dolce, gentile, permaloso, orgoglioso e indolente. Una periferia tutta particolare, così lontana dal sentire quasi montanaro di una certa Spagna. Europeo ma anche qui con caratteristiche così tipiche da farne un microcosmo, un mondo a parte.
L’Europa oggi è la Germania unita, il tedesco la occupa con la forza di un’economia globalizzata, di stampo statunitense, è un paese che ha fatto i conti con il proprio passato rielaborandolo profondamente e passando ad altro, superando quell’ansia che Piovene registrava nelle terre che non vedono quasi del tutto il mare come sosteneva Savinio (e Sorte dell’Europa sarebbero pagine da leggere accanto a quelle dello scrittore vicentino), Piovene avverte per tempo a Berlino che l’aria sta cambiando nella città dell’assurdo recinto, così come Monaco l’aveva preceduta in quella gigantesca opera di ricostruzione dove vi è un curioso e interessante incontro con Konrad Lorenz. Piovene crede negli individui, nelle nazioni, nelle ragioni di un continente che rimane ambiguo e anfibio, come quando esisteva la grande divisione ad Est, ora venuta meno, ma che non ha dissolto quel grado di diffidenza tra le nazioni che sembra portare verso accordi a più velocità, tra fanatismi, opportunismi e silenzi prudenti interni ed esterni alle dinamiche delle relazioni internazionali.
La crescita paritaria dell’Europa è una favola sentenziava Piovene nel 1973, che credeva nel ruolo guida della Francia (aveva già dedicato nel 1966 un notevole saggio, Madame la France, che merita di essere vagliato con attenzione quanto il suo De America, per non parlare di quel capolavoro che resta Viaggio in Italia) dove la crisi dell’idea di Europa, l’Europa semilibera appunto, era anche una crisi di sogni, di utopie vitali, di ipotesi realmente percorribili nel tempo lungo di un’unificazione graduale e sensata. In un panorama editoriale raramente attrattivo come il nostro, non appare fuori luogo attuare qualche ripescaggio di autori di alto livello, il caso di Piovene poi offre anche sul fronte narrativo e biografico ampi spazi inediti di indagine. Europeo lo era già per vocazione, ma non aveva dimenticato la sovrana bellezza e stanchezza di un certo paesaggio veneto, a lui carissimo.