Sottraendo il capolavoro 2001: Odissea nello spazio a interpretazioni immediate – aprendolo quindi a infinite interpretazioni – Kubrick, che ha rappresentato una potente esperienza visiva intorno alla quale lascia tutti liberi di specularci come vogliono, ci lascia soli di fronte al monolito, un significante privo di significato. Ci fa sperimentare la sete della comprensione, assieme all’impossibilità di oltrepassare i limiti della comprensione. Durante la visione siamo in assenza di gravità, presi dalla vertigine, rapiti dal fascino di immagini, suoni e musiche di un film quasi privo di dialoghi. “Le scene più forti, quelle di cui ci si ricorda, non sono mai scene in cui delle persone si parlano, ma quasi sempre scene di musica e immagini”: in nessun altro film Kubrick è stato tanto fedele a questo suo assunto quanto in 2001: Odissea nello spazio.
Tre minuti di pellicola nera accompagnati, come brusio di fondo, da suoni striduli che si perdono in lontananza. È un’immagine del caos primordiale che si contrappone, prima ancora che il film abbia inizio, a un’altra immagine, sintetica e grandiosa, che rappresenta l’ordine della creazione. La Terra, la Luna e il Sole perfettamente allineati, in asse con l’obiettivo della macchina da presa, mentre dalla colonna sonora si sprigionano, incalzati dal ritmo delle percussioni, gli accordi trionfali che aprono il poema sinfonico Also sprach Zarathustra di Richard Strauss, per ribadire la differenza che c’è tra il caos e il cosmo, tra ciò che è e ciò che non è. Inizia così 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, coronato da uno straordinario successo al suo primo apparire cinquant’anni fa, e che ancora oggi conserva intatto il suo fascino.
Una pellicola la cui forza consiste nelle immagini incredibilmente esplicite e nelle azioni compiute a vista, mentre i dialoghi sono ridotti allo stretto indispensabile. Con quello che fa vedere, e ancora di più, con quello che, pur sottacendolo, lascia capire, il film ha coinvolto emotivamente una gran massa di spettatori di ieri e di oggi.
Se il contenuto di fondo del film fosse stato espresso con parole, probabilmente molti spettatori non interessati all’argomento – l’origine della specie umana, la conquista dello spazio, la meta futura dell’umanità – sarebbero rimasti indifferenti.
Ancora oggi permangono nella mente dello spettatore interrogativi sulla corretta interpretazione dei segni che s’intrecciano nel corso del film e si presentano talvolta come veri e propri simboli. Uno dei fattori che determinano il fascino che questa pellicola ancora conserva intatto.
Rispondendo nel 1968 alle domande di un intervistatore, Kubrick ha detto di essere stato spinto a fare questo film da un’idea coltivata a lungo nella mente: «Molti scienziati e astronomi credono che l’Universo intero sia abitato dall’intelligenza. […] La loro teoria è che la formazione planetaria non è avvenuta in modo accidentale, ma in modo coerente, e che la vita ne è una conseguenza inevitabile […]. L’immaginazione si scatena liberamente quando si considera quel che potrebbe essere l’evoluzione ultima dell’intelligenza […] In una tappa finale, si giungerà a delle entità che avranno una conoscenza totale e potranno diventare degli esseri di energia pura, in qualche modo degli spiriti. Avranno probabilmente un potere quasi divino: comunicazione telepatica con tutto l’Universo, controllo completo di tutte le materie, capacità di fare cose che noi crediamo possibili solo a Dio».
Come nelle opere di M.C. Escher o di J.L. Borges, Kubrick cerca l’infinito nel finito. Più si indaga, più il senso ultimo, quello fondante, definitivo, sfugge. Il senso è dato dal segno, dal linguaggio.
L’Odissea di Kubrick dialoga con Borges e con Escher in allegorie che hanno assimilato da tempo il tramonto delle illusioni razionaliste e la crisi del positivismo ottocentesco; non ne sono più annichilite. In “2001: Odissea nello spazio” si respira piuttosto una positività figlia degli anni ’60, anni di conquiste tecnologiche quanto di fermenti sociali. La consapevolezza che l’uomo può decretare la propria distruzione (l’olocausto nucleare, oggetto del precedente film di Kubrick, “Dottor Stranamore“) convive con l’entusiasmo che accompagna la vigilia dello sbarco sulla luna.
L’Odissea novecentesca di Kubrick è, come quella di Joyce, un’Odissea modernista, destrutturata. Nel montaggio le dissolvenze sono rare, prevalgono i raccordi scoperti, spesso cut-cut (stacchi secchi visivi e sonori insieme) con accentuazione dei contrasti (silenzio/rumore; buio/luce). Nel procedere per epifanie e scarti improvvisi sta l’anti-classicità di Kubrick, la sua avversione per il romance, il romanzo ottocentesco che nasce con il romanticismo. A partire dal celeberrimo stacco sull’osso che “diventa” astronave con un’ellissi di milioni di anni, sino al finale in cui a David moribondo si sostituisce un feto, “2001″ è film che osa attraverso il montaggio. Come il montaggio, anche la struttura di “2001” è s-composta da scarti improvvisi. Di questi scarti è figura principe il monolito: qualcosa che un istante prima non c’era, che all’improvviso c’è.
Kubrick non fa ricorso praticamente mai al campo/controcampo classico. Sul Discovery, alcuni controcampi molto particolari avvengono con Hal. Non possedendo corporeità, quello di Hal è un perturbante controcampo/soggettiva in fish-eye. Hal, col suo occhio solo, è il Polifemo dell’Odissea di Kubrick, ma in effetti gli occhi di Hal sono molteplici, sparsi ovunque. Hal è un panopticon: vede tutto, nulla può sfuggirgli. Il tema della macchina che si ribella al creatore (l’archetipo di Frankenstein) si presta bene alla poetica di Kubrick, dove è messa sotto scacco l’illusione dell’ingegno di controllare tutto (quindi anche il prodotto della propria creazione). Ma anche Hal (cui agli scacchi è facile muovere scacco matto a Frank) è messo sotto scacco dalla propria emotività ed ambizione, causa prima della sua sconfitta. Gli uomini del 2001 – freddi, cortesi e diplomatici (la recitazione è piatta e impalpabile) – sembrano aver appreso a tenere a freno la propria emotività, ma non hanno rinunciato alla doppiezza, e l’orgoglio di Hal discende dal ritenersi superiore alle menzogne, alla segretezza, alle contraddizioni umane. Pensa di poter agire meglio: forse, di essere uno stadio superiore dell’evoluzione. Ma a ripetersi è solamente la superbia di Ulisse/Adamo. Hal è sconfitto da David con una mossa d’azzardo, in cui rischia la vita (l’uscita dalla capsula senza casco protettivo): un’ipotesi non contemplata probabilmente da un computer.
“La cosa più spaventosa riguardo l’universo non è che esso sia ostile, ma che sia indifferente. Se riusciamo a venire a patti con questa indifferenza e ad accettare le difficoltà della vita entro i limiti della morte, allora la nostra esistenza come specie può avere un senso e un compimento. Per quanto vaste siano le tenebre, dobbiamo riempirle con la nostra luce.”
“In un universo infinito ed eterno tutto è possibile, ed è improbabile che riusciamo anche solo a scalfire la superficie della gamma completa delle possibilità”.
(S. Kubrick)
Fonti: Ondacinema e La Civiltà Cattolica