Lo scrittore toscano Federigo Tozzi è un classico che gode di una paradossale fortuna: sempre più studiato, ma tutt’ora poco letto; ormai da tempo assurto nel canone (soprattutto grazie a Debenedetti e Baldacci), ma in forme particolarmente mosse e dibattute. Il che, certo, dipende anche dal carattere scorciato ed ellittico delle sue narrazioni, i cui vuoti, disorientanti per il lettore ingenuo, hanno variamente sollecitato la critica. Del resto, se classico è quell’autore che «non ha mai finito di dire quel che ha da dire», Tozzi lo è in modo particolare; anche perché, con lui, più se ne sa, e meno si può concludere; più si guardano da vicino i suoi testi, e più si rivelano nuovi spessori.
In tal senso anche un romanzo breve come Gli egoisti – forse minore, e certo dalla critica meno considerato – può costituire un valido terreno di prova: un testo ricco e problematico, sul quale sono stati dati giudizi dai margini d’oscillazione anche molto ampi, ma che, appunto, non smette di interrogarci. Scopo di questo contributo sarà dunque quello di metterne in luce alcune peculiarità stilistiche e narrative, muovendo dal testo e tornando al testo. Senza pretese conclusive, ma cercando di avvalorare gli spunti interpretativi con osservazioni d’insieme e primi piani. Gli egoisti sono un’opera postuma, non licenziata dall’autore e pubblicata per la prima volta nel 1923 (in un unico volume assieme a L’incalco, per le cure di Emma Tozzi e Giuseppe Antonio Borgese), sulla base di un dattiloscritto probabilmente composto tra il 1918 e il 1919, e sostanziosamente rivisto nel gennaio del 1920 (due mesi prima della morte).
Trama e contenuti del romanzo di Tozzi
Gli egoisti, ambientato in una Roma seducente e ingannatrice, ed imperniato sull’ambiente letterario romano, ha per protagonista Dario, un musicista di Pistoia trasferitosi a Roma in cerca di fortuna. Un conflitto interiore tormenta l’animo dell’uomo che spesso viene assalito dalla solitudine: Dario ama Roma e Albertina, ma entrambe sembrano respingerlo. Il rifiuto scatena in lui impulsi contrastanti che lo portano ad allontanare e detestare ciò che in realtà desidera. Vagando per Roma con gli amici nel vano tentativo di dimenticare le proprie delusioni, Dario riuscirà a far emergere i suoi più profondi sentimenti. Un grande libro, Gli egoisti, dove arte e vita si confondono tra spine indistricabili, in poche pagine, purtroppo poco capito e grande nella misura stessa in cui esso si salda con le origini prime della vocazione tozziana: il battesimo dannunziano.
Il carattere non definitivo della versione pubblicata e la discontinuità della sua gestazione sembrano riflettersi nella struttura profonda di questa opera. E questo non tanto perché la natura desultoria e scheggiata del narrare tozziano risulta qui quasi esasperata dalla suddivisione in sedici brevi capitoli così frammentati al loro interno da apparire come unità narrative, se possibile, più labili del solito. Ma piuttosto perché, nella stesura degli Egoisti, paiono essersi alternate intenzionalità, per non dire poetiche, diverse. Da un lato, infatti, con modalità che paiono muoversi nella scia di Con gli occhi chusi, buona parte del romanzo – secondo noi, quella migliore – persegue la rappresentazione (psico)drammatica, necessariamente ondivaga e sussultante, della nevrosi e della visionarietà del protagonista, alter ego di Tozzi. Dall’altro, nel finale soprattutto, sembra emergere un’istanza etico-ideologica che subordina la rappresentazione al messaggio.
Aspetti linguistici
L’ambientazione romana del romanzo, al di là della toponomastica, non comporta nessuna nota linguistica di colore locale; ma forse è responsabile del fatto che la componente toscana è qui meno rilevata che nei precedenti romanzi. Negli Egoisti, infatti, senesismi e toscanismi sono quasi del tutto assenti anche nel dialogato. E, in definitiva, si limitano ad alcuni tratti fonomorfologici (v. bevere, escire, leticare, riescire, smovere, torbo, ma soprattutto il verbo-insegna doventare, 11 occorrenze, sempre preferito a diventare) e a poche forme più accusate: crocchiolante (‘croccante, scricchiolante’), 15 diaccio, p. 458 (‘ghiacciato’), giomella, p. 476 (‘cavità formata dalle mani giunte’), rincincignare, p. 469 (‘spiegazzare’), rincalcagnato, p. 473 (‘ammaccato’), scrinatura, p. 453 (‘scriminatura’), stroppione, p. 459 (‘scardaccione’, nome comune del ‘cirsium arvense’) e trasaltare, p. 465 (‘trasalire’).
Quanto ai consueti effetti di relativizzazione e soggettivizzazione, essi si manifestano in forme ulteriormente insistite; come segnala l’accentuato ricorrere di come (con valore approssimante), forse, parere, sembrare e, soprattutto, di quasi e come se (comparativo ipotetico). I riscontri statistici lo dimostrano,18, ma basterebbe anche una semplice rilettura del primo capitolo per convincersene. È però nella resa degli stati allucinatori e visionari del protagonista che pare di poter cogliere il nucleo più originale degli Egoisti. Qui infatti il frantumato procedere della rappresentazione tozziana non solo ha luogo entro un quadro di estrema de-realizzazione, ma contempla anche nuove forme, ancor più destabilizzanti, d’incrinatura d’una dimensione narrativa tradizionale:
Ad un tratto, gli parve che la sua anima si mettesse a suonare; ma non percepiva distintamente nessuna musica; come se fosse stato profondamente sordo. Cercò d’ascoltare meglio: attese che una nota più bella si chiarisse; per poterla ricordare. Attese con ansia acre, quasi disperata. Ma, quella larva sparì; e non ne restò nessun segno. Pure, era sicuro di averla sentita! Ora, gli pareva d’essere in una piazza; dove non era stato mai; camminava a passi cadenzati, e una specie di fanfara, anche questa inespressa, lo faceva muovere come se danzasse. La piazza era grande e non finiva più; si allargava sempre; benché restasse eguale.
(cap. II, p. 459)
la narrazione degli Egoisti è tutta un susseguirsi di microeventi e un altalenarsi di stati d’animo contrastati, che si presentano come assoluti ed effimeri insieme. Al senso di una interiorità senza saldezza, che senza sosta si sfa e si trasmuta, si somma così quello di una realtà esteriore anch’essa in continua agonia e mutamento: colta, per lo più, nei suoi scollamenti e nel suo deformarsi; percepita come sul punto di cedere, pronta a fendersi e a richiudersi, ma sempre senza possibilità di rivelazioni o incanti durevoli:
Ma si fermò ad ascoltare un pino che si smuoveva; come se fosse stato per aprirsi quanto era largo il cielo. Allora, tremando tutto, non potendo più tenere la voce che non obbediva alla volontà, le gridò:
– Stanotte, scriverò la musica che io sento ora!
E, quando egli si fu calmato, senza che Albertina fosse riuscita a dirgli una
parola, tutta la notte era stellata, e il pino fermo e chiuso.
D’altronde la vita di un artista, di uno scrittore è anche questo. E Tozzi lo sapeva bene.
Fonte: https://www.academia.edu/10015153/2013_Gli_egoisti_di_Federigo_Tozzi._Appunti_per_una_rilettura