Il nero che occupa l’intera superficie dello schermo è squarciato da uno sparo, poi due, poi tre; risuonano poco distanti due voci secche e concitate… ed ecco che dal buio della notte emergono le sagome spettrali dei fratelli bounty killers. Un memorabile prologo in medias res che apre il sipario su “I fratelli Sisters”, western di respiro antico intriso di schizofrenia moderna con cui il regista e sceneggiatore francese Audiard (“Sulle mie labbra”, “Il profeta”, “Un sapore di ruggine e ossa”) scava alle radici della mitografia americana per eccellenza.
Estranea sia alle repliche di maniera, sia alle revisioni snobistiche, la trasposizione sullo schermo di un romanzo del canadese Patrick deWitt (Arrivano i Sister, ediz. italiana Neri Pozza, 2012) costituisce l’aggiornata versione di un archetipo narratologico, il racconto del viaggio iniziatico dell’eroe -in questo caso una coppia di antieroi freudianamente traumatizzati dalla malefica figura paterna- alla ricerca d’identità e consapevolezza. Preceduti da una reputazione sinistra, il maggiore Eli (Reilly) più riflessivo e dubbioso e il minore Charlie (Phoenix) folle e scervellato braccano, torturano e trucidano dall’Oregon alla California le vittime designate dal misterioso boss soprannominato Commodoro fino al momento in cui decidono di risparmiare l’esaltato chimico Warm (Ahmed) convinto d’essere in possesso della formula infallibile per dragare l’oro dai corsi d’acqua e di pedinarlo nelle esplorazioni intraprese assieme al detective Morris (Gyllenhaal) che ha convertito alle utopie libertarie del proto-socialismo fourierista.
Nel climax di cavalcate e sparatorie, ma anche di situazioni estrose o insolite per un western affiora una forma di humour macabro, disseminato nel corso dell’azione o durante le pause dei bivacchi nonché abilmente incrementato quando dall’edenica ariosità dei grandi spazi (ricostruiti in Spagna e Romania) si arriva al frastornante caos della San Francisco ottocentesca gremita dalle torme di avventurieri richiamati dal miraggio della corsa all’oro.
In assenza di pedissequi ricalchi cinefili –Audiard ha un suo stile inconfondibile, basta notare per esempio il recupero vintage delle dissolvenze a iris- non si può in ogni caso disconoscere l’impronta cinica e disillusa dei Peckinpah, Penn, Altman e Cimino, capiscuola del Nuovo cinema americano tra la fine degli anni 60 e la metà degli 80: il cast a cinque stelle riesce infatti a rendere credibile e godibile, proprio come in quell’epoca rinnovatrice, lo scarto continuo tra la fantasia del racconto e il realismo degli sfondi, i barlumi di un’idea comunitaria e la spietatezza della caccia all’uomo. I fratelli che si chiamano “Sorelle”, in effetti, si battono ancora per le cattive cause in un paese allo stato selvaggio che nondimeno si sta trasformando lentamente, prefigurando mete d’ordine e democrazia e tentando di arginare la propria genetica violenza avvezza a distruggere tutto a cominciare dalle illusioni e la speranza.
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