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Arte, collezionismo finanza, ovvero quando il giudizio estetico è affidato alle leggi commerciali

Era il 1968 quando il pittore francese Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938) sigillò la galleria Apollinaire di Milano incollando una pezza striata sulla porta d’ingresso. Lo spazio espositivo fu chiuso dall’artista così come gli ispettori sanitari serrano i locali infetti: l’arte era accolta in uno spazio sociale disturbato. Durante gli anni sessanta e settanta la critica istituzionale si diffuse come vera e propria pratica artistica, tesa a denunciare il legame indissolubile tra dimensione creativa e sfera economica. Le gallerie erano i luoghi maggiormente presi di mira dagli artisti, poiché promuovevano la trasformazione di opere d’arte in merce e allontanavano il pubblico dallo sterile spazio espositivo. Formali come aule di tribunale, più lustri e glaciali di un laboratorio scientifico, questi contenitori d’arte erano, e sono tutt’ora, dei veri e propri spazi sacri, che idealizzano ogni materiale inserito al loro interno e ripudiano la presenza umana del pubblico.

Le sue pareti, come scriveva Brian O’Doherty negli anni sessanta, sono intrise di opportunismo e commercio, le opere non sono esposte per essere vissute ma si riducono a merci destinate allo scambio. Eppure l’analisi e l’opposizione da parte degli artisti odierni verso i meccanismi che regolano la mercificazione dell’arte sembrano essersi affievoliti, e gli operatori culturali sconfitti e disillusi rispetto a un sistema economico così sofisticato da annullare ogni ostinazione donchisciottiana. In questo momento storico i mercati dell’arte vedono un’influenza sempre più esigua da parte dei musei pubblici – tendenzialmente meno vicini a logiche di profitto e dunque meno soggetti a finanziamenti statali – e una forte presenza di collezionisti privati.

Ma chi sono questi collezionisti e perché sono così interessati a investire nell’arte? L’elenco di ART news Top Collectors è sicuramente un ottimo punto di partenza. Tra i primi in ordine alfabetico incontriamo l’imprenditore miliardario Roman Abramovich, noto per aver pagato tangenti miliardarie per il controllo delle risorse petrolifere e di alluminio in Russia. L’elenco comprende anche il quarto uomo più ricco del mondo secondo Forbes Bernand Arnault, il buisnessman Charles Saatchi, che aiutò a eleggere la regina del neoliberismo Margaret Thatcher, e Dimitri Mavrommais, il gestore patrimoniale greco con sede in Svizzera che pagò milioni di sterline per un Picasso a Christie’s (una delle principali case d’asta al mondo) nel giugno del 2011, mentre i greci insorgevano contro le misure di austerità europee.

A livello nazionale, se prima della globalizzazione e della progressiva finanziarizzazione i centri nevralgici del mercato dell’arte erano Europa e Stati Uniti, ora gli investimenti provengono da altri luoghi come Cina, Russia e paesi in via di sviluppo tra cui India, Brasile e Sud Africa. L’artista e ricercatrice americana Andrea Fraser nel saggio 1% c’est moi (2012) rileva che il mercato dell’arte cresce in relazione all’aumento della disparità di reddito.

Tra il 2004 e il 2009, ad esempio, il numero di compratori provenienti dal Medio Oriente a Christie’s è aumentato del 400%, la regione che – come riporta lo studio Measuring lnequality in the Middle East 1990-2016: The World’s Most Unequal Region? realizzato dagli economisti Facundo Alvaredo, Lydia Assouad e Thomas Piketty – risulta avere attualmente la distribuzione di reddito più diseguale al mondo. Sebbene la comunità finanziaria non abbia riconosciuto ufficialmente il mercato dell’arte come un settore d’investimento, a causa della mancanza di liquidità e del suo carattere poco trasparente, le opere d’arte sono utilizzate come garanzia per assicurare prestiti bancari multimilionari e confluiscono nel portafoglio finanziario per i fondi pensione. Diversi studi attestano che l’arte sia una buona copertura contro l’inflazione e un ottimo strumento di gestione del rischio; alcune banche come Citigroup hanno iniziato a riconoscere le collezioni d’arte dei loro ricchi clienti come parte dei loro portafogli finanziari, e più le stesse vengono ampliate, minore risulta il rischio d’investimento.

Questi nuovi collezionisti, che trainano e determinano l’abbassamento e la risalita del capitale simbolico delle opere d’arte, spesso mancano di una conoscenza approfondita della dimensione culturale e sono costretti a richiedere l’assistenza da parte di consulenti, o nel peggiore, ma anche nella stragrande maggioranza, dei casi il loro interesse a investire è dettato prevalentemente da fini commerciali. Assistiamo, dunque, a un cambiamento di rotta nel sistema dell’arte: si è passati da un precedente elitarismo culturale, che vedeva, a partire dai Salon, una squadra di accademici quali deputati dello status artistico delle opere, a un elitarismo economico, più precisamente finanziario. In questa deprofessionalizzazione del giudizio culturale, sono ora i valori economici a determinare la reputazione artistica, piuttosto che il contrario, un meccanismo che si iscrive perfettamente nell’attuale fase del capitalismo che Jeremy Rifkin denomina “culturale”.

La volontà di trarre profitto dall’esperienza artistica è anzitutto promossa da gallerie e case d’asta, ma trova la sua massima e subdola manifestazione nelle fiere d’arte, che, disancorate da qualsiasi contesto sociale, promuovono la vendita e il consumo delle opere d’arte sotto forma di evento culturale. Ravvivato da esposizioni artistiche e tavole rotonde di esperti, il format standard delle fiere d’arte cerca di nascondere il fine reale dell’evento: la mercificazione della cultura. La presenza pregnante di Gallerie, case d’asta e fiere da un lato e la diminuzione d’investimenti pubblici nella dimensione culturale contemporanea dall’altro, hanno modificato anche l’attitudine dell’artista di oggi, il quale, venuta meno la possibilità di costruirsi un’adeguata autosufficienza economica attraverso la ricerca e la produzione artistica – una via oggi fortemente impraticabile –, sposano l’ossessione nevrotica di fare profitto a breve termine. Nel perseguire un guadagno gli operatori d’arte contemporanea sono divenuti piccoli o grandi imprenditori di sé, collaborano con il mercato per fabbricare le loro carriere e sono disposti a sacrificare la propria poetica per il minimo spiraglio di vendita.

Lampante è il gesto di Damien Hirst, secondo Il giornale dell’arte nella top ten degli artisti più venduti al mondo e con ben 120 assistenti, che nel 2008 scavalcò la casa d’asta Sotheby’s avvertendo direttamente i commercianti d’arte che le 223 “opere d’arte” uscenti dal suo atelier erano disponibili al modico prezzo di 200 milioni di dollari. Questo modus operandi da celebrità va a braccetto con la presenza sempre più costante di vip come Leonardo di Caprio e Brad Pitt alle feste delle fiere d’arte contemporanea e alle inaugurazioni di gallerie. Possiamo constatare che il mercato dell’arte abbia adottato la logica del marchio di moda: l’artista contemporaneo si è trasformato in un brand manager teso alla propaganda commerciale della propria produzione. Non a caso uno degli artisti di maggiore successo Takashi Murakami ha collaborato intensamente con il super brand Louis Vuitton, mentre Miuccia Prada è una delle più importanti collezioniste d’arte contemporanea.

Questa fotografia è ovviamente condizionata dalle politiche neoliberiste, che negli ultimi trent’anni hanno promosso deregolamentazione e privatizzazione anche nel settore culturale, soffocando l’autonomia della produzione artistica e affidando ogni giudizio estetico alle leggi commerciali e finanziarie. La stessa ascesa di uno stile piuttosto che un altro nel mercato dell’arte, come rilevano la storica dell’arte Maria Lind e il docente ordinario di sociologia Olav Velthuis, è influenzata da questioni economiche. Nel loro saggio Contemporary Art and Its Commercial Markets: A Report on Current Conditions and Future Scenarios (2012) rilevano che, se durante il boom economico il mercato dell’arte era invaso da formati relativamente accessibili come la Pop Art egli anni ’60 e la pittura figurativa negli anni ’80, la crisi degli anni ’70 fu segnata dall’ascesa di stili meno commerciabili come il minimalismo e la performance art, mentre la Video Art fu in auge dopo il tracollo finanziario degli anni ’90. Nell’ottica di questo riduzionismo economico la presenza degli stili nel mercato dell’arte assume le connotazioni di risposta opportunista alla domanda latente – come nel caso del boom economico -, o assente –durante le crisi. Qual è, dunque, la libertà dell’artista in questo sistema falsamente democratico che suggerisce addirittura i format più vendibili delle opere d’arte?

 

Arianna Cavigioli

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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