Gadda ne “La cognizione del dolore” scrive: “[…] l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.
Però Gadda lo fa dire al protagonista, suo alter ego nevrotico, in una crisi parossistica. Non dimentichiamo che Gadda era notoriamente nevrotico, per quanto geniale, e ha messo molto del suo io empirico nevrotico in quel romanzo. Alcuni oggi, che vorrebbero rimuovere l’io lirico, citano questo brano dell’ingegnere.
Inoltre per Gadda tutti i pronomi sono “pidocchi del pensiero”, per cui non ci sarebbe via di uscita. Ogni narrazione sarebbe perciò tarata a priori. Infine queste frasi non vanno decontestualizzate. Estrapolare delle frasi dal loro contesto può essere fuorviante ed indurre in errore. Si tratta pur sempre di un romanzo, La cognizione del dolore, che ha senza ombra di dubbio un suo contenuto di verità, ma che è anche creazione di un mondo fittizio e di personaggi immaginari grotteschi e paradossali.
L’io tra nevrosi e impersonalità
Il problema è quanto della propria nevrosi, delle proprie fratture, dei propri vuoti uno riversi nella propria opera e ciò non è necessariamente detto che sia un male. Chi impone che l’impersonalità e il distanziamento siano degli obblighi della narrazione? E la narrazione di Gadda può essere forse presa di esempio?
Bisogna sempre stare attenti quando si cita a non farlo a sproposito, a non strumentalizzare la fobia dell’io di Gadda. Qui non si tratta di canoni della letterarietà, ma di una difesa ad oltranza di quel poco che resta del soggetto freudiano (visto e considerato che il soggetto cartesiano è stato distrutto dai maestri del sospetto e del cogito, ergo sum resta solo il coito, ergo sum).
La rimozione dell’io lirico
Ad ogni modo ognuno è sempre circondato da se stesso, come scriveva Sartre, indipendentemente dagli escamotage narrativi. A proposito di io e scrittura, oltre al celebre detto “Conosci te stesso”, Gramsci in un articolo citava Novalis, che a sua volta scriveva: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri». Ma può valere anche il contrario.
Insomma sono necessarie anche l’autoconoscenza, l’autodeterminazione. Per decenni l’intimismo ha fatto da padrone nella cosiddetta poesia lirica. Attualmente in Italia alcuni letterati vogliono rimuovere l‘io lirico e demonizzano l’io in senso lato.
Voler rimuovere l’io lirico significa non poter scrivere in prima persona nelle poesie, essendo costretti a trattare gli altri che possono essere proiezioni del proprio io o riproposizione delle solite figure parentali. Insomma la psicanalisi ci insegna a ragione che è lecito diffidare anche di chi parla troppo degli altri e che talvolta così facendo finisce per deformarli troppo con la sua lente o per rispecchiare sé stesso.
Poeti introversi ed estroversi
Alcuni sostengono che i poeti contemporanei siano affetti da egolatria. È difficile dire quale sia il discrimine tra normalità e patologia. E poi si pensi al fatto che anche Stendhal scrisse Ricordi di egotismo. La stessa poesia moderna americana è un continuum ai cui poli opposti ci sono la schiva Emily Dickinson e il titanico Walt Whitman.
Da una parte l’introversione e dall’altra l’estroversione. Prima ancora che un atteggiamento intellettuale, filosofico, letterario, conoscitivo scegliere uno o l’altro di questi poli è questione di personalità. Ci sono introversi ed estroversi. Non c’è niente di giusto o sbagliato. Ci sono pro e contro di entrambe le condizioni esistenziali.
Questi due diverse modalità di approcciare la realtà sono frutto prima di tutto questione di personalità. Dalla personalità consegue il modo di interfacciarsi al reale. Come esiste un orientamento sessuale, politico, valoriale esistono anche varie tipologie di personalità. Ma i critici letterari non dovrebbero giudicare il modo in cui gli autori si volgono alla conoscenza.
C’è chi sceglie insomma prevalentemente l’interno e chi l’esterno. In alcuni autori gli altri si riflettono in loro stessi ed in alcuni autori l’io si riflette negli altri. Si tratta pur sempre di rimandi continui, di un perenne gioco di specchi. Partire dagli altri e finire nell’io o viceversa è solo un punto di partenza.
Cosa significa privilegiare l’io
Privilegiare l’io o il mondo non deve essere una posa, basata su premesse teoriche. Esimersi dal tranciare giudizi approssimativi è senza dubbio un atto di onestà intellettuale; è fuori luogo anche il fatto che a seconda dello spirito dei tempi sia di moda quando l’intimismo e quando invece gli altri. Un altro aspetto risibile è che alcuni autori postulino la rimozione dell’io e poi scrivano dei romanzi o delle raccolte poetiche autobiografiche.
Evidentemente egoriferiti sono sempre gli altri. In questi ultimi anni in poesia nelle polemiche letterarie evidentemente vince chi dà per primo dell’egoriferito all’altro. È una moda come un’altra. Non è frutto di una evoluzione stilistica o letteraria. Non è un punto di arrivo della letteratura come vorrebbero far credere alcuni. Un tempo c’era la vecchia disputa molto divisiva tra realisti ed idealisti.
La conoscenza di se e degli altri
Il vero atteggiamento conoscitivo equilibrato sarebbe trovare un equilibrio tra io e mondo e questo trascendendo i propri tratti di personalità. Ma ciò è quasi impossibile perché l’io o il mondo sono come calamite. C’è chi è attratto dall’uno e chi dall’altro, molto probabilmente più per attitudine che per scelta, più per natura che per cultura.
Un interrogativo che sorge spontaneo è se la propria personalità di base sia un nucleo costante ed inalterabile o se invece oggi come oggi sia modificabile. La cosa si complica perché sembra che le vecchie teorie sulla personalità come i tipi psicologici di Jung siano oggi inadeguate per decifrare il Sé così sfuggente dell’uomo contemporaneo.
Sembra che entrino in gioco in ognuno di noi anche le cosiddette sub-personalità. Anche gli altri sono però sfuggenti. In ogni caso è vero che cresciamo e maturiamo grazie all’immagine che gli altri hanno di noi, ma è altrettanto vero che per conoscere bene gli altri bisogna conoscere bene sé stessi.
È un circolo ermeneutico che dura tutta la vita. Sia la conoscenza di noi stessi che del mondo è sporadica, superficiale, discontinua. Di noi stessi conosciamo la nostra voce interiore, il nostro discorrere tra sé e sé. Degli altri conosciamo una minima parte dei loro comportamenti e delle loro espressioni verbali.
Uno dei problemi filosofici ancora irrisolti è come, nonostante i nostri limiti intrinseci, riusciamo a conoscere tutto quello che conosciamo. La questione dell’io in letteratura è un intreccio inestricabile di letterarietà e psicologia. Non può essere altrimenti e le persone ponderate dovrebbero riconoscerlo senza tacciare chi la pensa diversamente di psicologismo.
Non vi preoccupate comunque poeti introversi ed intimisti: l’io tornerà di nuovo in auge. E poi perché estrovertersi sia necessariamente un bene e concentrarsi su di sé è necessariamente un male? La preghiera, il raccoglimento interiore, la meditazione dovrebbero essere allora un male?
Davide Morelli