Che cosa la spinge a scrivere? Ha sempre saputo che sarebbe diventato scrittore? Se avessi a disposizione il tuo scrittore preferito, che cosa gli chiederesti? Lo scrittore israeliano Eshkol Nevo, che ha abbandonato una carriera da pubblicitario per dedicarsi alla scrittura, ha messo le mani avanti pubblicando la sua L’ultima intervista, in Italia con Neri Pozza nel 2019 (traduzione dall’ebraico di Raffaella Scardi).
Nevo, insomma, ha pensato bene che, a volte, è meglio farsele le domande. Il libro, che si legge come una lunghissima intervista, ma anche un po’ come un romanzo, ci spinge a fare i conti con la nostra inclinazione alla morbosità quando si tratta di scrittori. Specie se con un certo alone di fascino.
In fondo, quello che vogliamo spesso sapere è se c’è e quanto uno scrittore dentro i suoi romanzi. Quanta vita scorre nell’inchiostro sulla pagina. Poi: c’è dell’altro? Quali sarebbero le tue domande?
Il libro si può anche leggere seguendo il filo delle domande che sentiamo più nostre. Ammesso che Nevo risponda dicendo la verità. Ma poi che importa.
C’è in giro qualche scrittore che dice la verità nelle interviste? Le risposte sono così distanti da quelle che darebbe, all’impronta, il nostro scrittore?
Appunto qualche domanda, dalle più banali alle più scottanti. “Come riesce, lei che è un uomo, a creare figure femminili? Come affronta l’esposizione al pubblico conseguente all’uscita di un libro?
Che tipo di bambino era? Dove scrive? Pensa al pubblico dei suoi lettori, mentre scrive? Ha in mente un determinato lettore, o lettrice, mentre scrive? È possibile mantenere una famiglia facendo il mestiere dello scrittore? Le è mai capitato di avere il blocco dello scrittore?”
E poi: “Qual è la sfida più grande che la scrittura le pone? Conosce la fine delle sue storie prima di cominciare a scriverle? Cosa farebbe se non fosse uno scrittore? Che musica ascolta? Chi è il suo primo lettore o lettrice? Scrive al computer o su un quaderno? Se potesse rivivere un momento della sua vita, quale sceglierebbe?”
Di tante domande, le risposte che mi interessano di più sono quelle che indicano una strada come questa. Alla domanda I suoi libri sono estremamente tristi. Per quale ragione?
Nevo, o il suo alter ego, risponde così:
“Ci sono persone le cui ferite non si rimarginano. Il fenomeno ha un nome medico che al momento non ricordo. Queste persone non si devono mai tagliare, altrimenti rischierebbero di morire. Dissanguate. Per me è la stessa cosa, con le separazioni. Dentro di me, nessuna separazione si rimargina.
Sto ancora piangendo per Rakefet Kovaz, la mia prima fidanzatina in quinta elementare. Il tessuto dell’anima non si cicatrizza, e la ferita non guarisce. Rimane aperta, sanguinante. Ogni anno si aggiungono altri addii. Altre ferite da cui sgorga la tristezza. Impossibile che non se ne aggiungano. Cosa vuoi fare, non innamorarti?
Prima di cominciare a scrivere me ne andavo per il mondo così: sanguinavo dolore da dentro. Costantemente. Quando ho cominciato a scrivere mi sono trovato a distribuire la mia tristezza ai personaggi nei libri che inventavo. Ciascuno riceveva la necessaria dose di tristezza.
E per me, nella vita vera, si è liberato spazio per la gioia. Un tempo le persone mi dicevano frasi come: non è un po’ troppo abbronzato per essere uno scrittore? Oppure: da dove deriva il suo perenne ottimismo? È andata così per quasi quindici anni. E poi, da chissà dove, è spuntata la distimia. L’ho già menzionata, quella gran figlia di puttana, in altre risposte a questa intervista. Forse è giunto il momento di distinguere fra distimia e la più nota sorella maggiore: la depressione”.
Chi non vorrebbe diventare uno scrittore affermato, i libri tradotti e venduti nel mondo? Un israeliano, che ha visto un romanzo tradotto pure in arabo.
Il problema con la vita degli scrittori sembra essere la vita stessa che si tende poi a mettere in pagina. E la moglie dello scrittore, Dikla, grazie alla quale è diventato uno scrittore, quando si tratta di leggere i libri del marito preferisce non farsi trovare. Come biasimarla.
“Ieri ho chiesto a Dikla se le andrebbe di leggere qualcosa di nuovo a cui sto lavorando. Ho aspettato il momento adatto. Aveva appena terminato la sua corsa serale. Dieci chilometri.
Ho aspettato che facesse la doccia. Shampoo, balsamo e crema idratante. Ho aspettato che indossasse la tuta da casa e le scarpe di lana spessa che ha comprato a Londra quando stava con il riccone.
Ho aspettato che si preparasse una tisana, stendesse le lunghe gambe sul divano e se la sorseggiasse in tutta tranquillità. Ho aspettato che le guance le si arrossassero per il vapore caldo e che gli occhi le diventassero lucidi come di lacrime. Solo a quel punto gliel’ho chiesto.
Ha risposto che non è disponibile. È a metà di un altro libro, un thriller di quello scrittore scandinavo, Wolf? Insomma, dài, quello che sembra un vichingo. Ho insistito. Ho chiesto di nuovo. Ha scosso la testa per dire di no e spiegato che, a parte il vichingo, per lei è troppo presto per leggere qualcosa di mio.
Che fino a oggi è sempre riuscita a tenere distinti, mentre leggeva, la nostra storia e lo scrittore, le mie fantasie e la realtà della nostra vita, ma non era certa di riuscire a farlo anche adesso”.
Conciliare la vita e la scrittura è una prova di resistenza. Avere una famiglia rende questa sfida ancora più ardua.
“Il primo libro l’ho scritto quando avevo il cuore spezzato per una separazione. Ero single. Ho pensato: quando troverò l’amore, non potrò più scrivere.
Il secondo libro l’ho scritto mentre Dikla era incinta. Ho pensato: quando avrò dei figli non potrò più scrivere.
Il terzo libro l’ho scritto mentre Dikla era di nuovo incinta. Ho pensato: una figlia sola va ancora bene, con due figli non c’è speranza che io possa continuare a scrivere.
Adesso ho tre figli. Una casa. Una famiglia. E penso: se tutto questo andrà in pezzi, cosa me ne importa della scrittura?”
Forse il segreto sta tutto qui: lo scrittore è uno che la tira in lungo, uno che non va mai dritto al sodo, si perde in dettagli. No, Eshkol Nevo, stando a quanto scrive, non lo sapeva che sarebbe diventato scrittore.
“No. Ma a un ceto punto, durante l’adolescenza, mi sono reso conto che le mie fantasie masturbatorie erano molto più dettagliate di quelle dei miei amici intimi. Le loro andavano dritto al sodo, come un’istantanea. Nelle mie c’erano ostacoli, conflitti, figure a tutto tondo. Dovevo credere alle mie fantasie per eccitarmi”.