Nel 1949, la Mondadori pubblica Vita in Egitto di Enrico Pea. Nonostante da decenni manchi una ristampa, questo titolo ha un’importanza capitale non soltanto per il gran pezzo di letteratura che rappresenta, ma anche per l’incredibile testimonianza che contiene.
In queste pagine, infatti, Pea fa un resoconto estremamente espressivo e concreto degli anni da lui vissuti in Egitto, per esattezza ad Alessandria, gran metropoli mediorientale. In questa opera lo scrittore seravezzino ci fa dono di pagine roventi; questo non solo in virtù dell’arido sole alessandrino, che tanto volentieri cuoce la carne degli uomini, ma anche per il turbinio di passioni politiche, amorose, artistiche e religiose che muovono le zone più umili della città, e che sono racchiuse in questa opera.
Alessandria d’Egitto durante l’inizio del XX secolo
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, Alessandria d’Egitto è un brulichio di razze e culture diverse: vi si trovano greci, arabi, copti, spagnoli, russi, ebrei e italiani, tutti mossi verso questa metropoli mediterranea per motivi diversi. Per quanto riguarda gli italiani (ma non solo), i motivi più stringenti sono sostanzialmente due: la ricerca di un lavoro e la politica. Proprio per quest’ultimo motivo, è presente una rete anarchica molto organizzata sul territorio. Non ci vuole molto tempo che il giovane Pea viene “iniziato” all’anarchia da Pilade, pisano, fuggito dall’Italia a causa di una condanna pendente sulla sua testa:
“Da Pilade ebbi la prima lezione sulla “società futura”. Fui chiamato “simpatizzante” che è il primo grado (anche l’anarchia ha i suoi gradi), “compagno” lo sarei diventato più tardi. Alto. Magro e di pelle rossa. Autoritario. Pilade metteva soggezione”.
Enrico Pea mette su un luogo che sembra essere la rappresentazione vivida di questa temperie alessandrina, ovvero la “baracca rossa”, «tumultante ritrovo di gente d’ogni risma e d’ogni nazione».
Trama e contenuti
È nella baracca rossa che si riuniscono, ogni giorno, tutte le teste calde della città, ed è proprio qui che Pea fa la conoscenza con il giovane Giuseppe Ungaretti. È a questo punto, quindi, che è necessario chiarire la natura di questo anarchismo, così diffuso nei bassifondi di Alessandria d’Egitto e nel libro. Non c’è da pensare, infatti, che tutti coloro che si professano anarchici, o che frequentano la baracca rossa, siano realmente degli ideologi formati sulle idee sovversive di un Proudhon o di un Bakunin.
Molto più spesso, si tratta di un vago istinto ribelle nei confronti della borghesia e di tutto ciò che sembra limitare la libertà individuale. Esempio lampante di ciò, è proprio Ungaretti, poiché «non era tutto di eguaglianza e di pane, l’affanno delle sue battaglie, ché in quell’arroventarsi c’era anche la voglia di svincolarsi dalle leggi borghesi: il desiderio d’impossessarsi del mondo. Era un agitarsi senza misura e senza meta: rompere intanto, con la furia dei giovani, per vedere com’è fatta la vita.»
Un racconto concreto privo di idealismi
In altri casi ancora, a far scaturire la fiamma della ribellione è solo un vago risentimento sociale, dovuto principalmente alla propria condizione di indigenza.
Non è un caso che proprio uno dei più forti esclamatori delle dottrine anarchiche, ovvero Pilade, una volta arricchitosi, abbia archiviato senza troppi problemi le sue vecchie passioni politiche. Superata la tragica morte del primogenito, Guidino, Pilade infatti riesce a far fortuna, assicurando a lui e alla moglie Argia una vita agiata:
“Se l’Argia avesse ancora Guidino oggi Guidino (lontano dal farsi regicida) sarebbe laureando, in qualche scienza. E se l’Argiaavesse avuto anche una figliola, la figliola suonerebbe il piano nel salotto buono nei giorni di ricevimento.”
Non è un racconto, quello di Pea, viziato da sentimentalismo o idealismo di alcuna sorta. Concreto e aderente alla realtà, come suo solito, non indora alcuna pillola, non distorce i fatti in nome di chissà quale verità. Non di rado, la narrazione si fa cinica e cruda, in particolare quando va a descrivere i vezzi e le manie degli abitanti del luogo da lui conosciuti.
Le famiglie greche, spagnole, ebree, i lavoratori arabi… ognuno di questi gruppi è come se avesse delle caratteristiche archetipiche. Gli ultimi menzionati, ad esempio, sono rappresentati quasi all’opposto dei sovversivi italiani: remissivi alle forze pubbliche e ai “padroni”, religiosi fino quasi alla superstizione.
Un parallelismo con Ungaretti
Il contrasto ben si avverte in uno degli episodi narrati nel libro, in cui l’autore, appena sbarcato in Alessandria, vedendo un arabo picchiato da un poliziotto, si butta in mezzo per difenderlo. Oltre a essere stato picchiato a sua volta, Enrico Pea subisce pure il dileggio degli altri arabi, divertiti dal suo altruismo considerato assurdo.
D’altra parte, la superstizione dei lavoratori arabi è ampiamente usata contro di loro. Un esempio è costituito dalla madre di Ungaretti, che per svegliare i suoi braccianti nel cuore della notte per impastare il pane, libera un suino nei loro alloggi. Questi, considerando l’animale demoniaco, ai suoi grugniti si destano spaventati a morte e docili come agnellini. Anche in questo caso, però, non si deve pensare che l’intento dell’autore sia quello di ridicolizzare le credenze religiose, tutt’altro. Se c’è un filo rosso che accompagna tutto Vita in Egitto, infatti, quello è proprio la ricerca spirituale. Per spiegarsi meglio, però è necessario dire qualcosa in più sulla struttura del libro.
Il racconto è steso in maniera apparentemente disordinata, con pochissimi punti di riferimento cronologici. Pea passa senza problemi da un argomento all’altro, mosso da suggestioni, ricordi, emozioni. Eppure, ogni divagazione prende un significato preciso, se il libro viene preso nella sua globalità.
La figura di Giuda
Ad accompagnare quasi tutti gli episodi narrati da Pea, infatti, è il fantasma di Giuda Iscariota. Lo scrittore seravezzino vuole chiarire al lettore la genesi del primo personaggio da lui messo sulla scena, nella sua opera teatrale più blasfema e dissacrante. «Riabilitare Giuda», questa la folle idea che Enrico Pea partorisce: una simile bestemmia non poteva che avere i natali in un luogo di bestemmiatori.
Eppure, nonostante gli anarchici, nonostante il materialismo imperante, tutto sembra dover portare a una riflessione sulla Fede: in visita a casa dei fratelli Thuil con Ungaretti, tra tutti i libri rari da questi posseduti, l’unico che attrae Pea è la bibbia della loro nonna; a lavoro e negli ambienti anarchici, si ritrova ad essere l’unico amico e il protettore di Pipicco, giovane spagnolo devotamente cattolico; nel cimitero civile, una volta seppellito il figlio di Pilade, viene disgustato dalle chiacchiere eccessivamente materialiste del custode.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Vita in Egitto comincia con la volontà di redimere Giuda Iscariota e finisce con la recita di una messa francescana.
Imbarcato sulla nave di ritorno in Italia, l’autore si imbatte nei preparativi di una messa. Chiede al marinaio se quella fosse una messa regolare, come quelle officiate in chiesa, e questo gli risponde che un gruppo di soriani cattolici si era portato con sé un prete, proprio con lo scopo di non saltare la liturgia nel lungo viaggio che li avrebbe portati in America.
Pea decide di assistere alla messa, per curiosità. Il marinaio, credendolo credente, gli accosta una sedia, nel caso volesse inginocchiarsi durante il rito. Pea, confuso e sdegnato da questa incomprensione, si trattiene dal rispondergli con male parole. Parte la messa, Pea ne rimane come stregato:
“E quando l’officiante si rivolse: aperse le braccia e disse: «Ita, missa est.» E gli emigranti si levarono in piedi, mi avvidi che anch’io avevo poggiato i ginocchi sulla sedia messa lì a bella posta in quel modo, dal marinaio, alle cui parole poc’anzi avevo provato superbia, confusione, sdegno.”
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