Viviamo in un momento storico dove l’apprensione morale per i diritti di libertà e uguaglianza è fortissima e anche plausibile, da una prospettiva secolarizzata, nondimeno la minaccia contro la quale bisognerebbe esprimere maggior preoccupazione coinvolge un orizzonte millenario molto più complesso, quello giudaico-cristiano. Il senso del Cristianesimo originale si condensa intorno al camino della promessa di Cristo, la promessa escatologica della vita eterna.
Il giovane teologo ravennate, ed ex studente di economia ed insegnante di religione Tommaso Amadei, convertitosi alla fede cattolica dopo essere stato un ateo-anarchico con una certa coerenza politica “amorale”, incarna ciò che sosteneva l’esegeta eversivo Sergio Quinzio: l’invocazione del credente che non chiede infatti ciò a cui l’uomo ha astrattamente diritto, ma ciò che Dio, stabilendo un patto con Abramo e con il suo popolo, promette come ricompensa alla fedeltà, o come immensa misericordia.
Il transumanismo di cui è impregnata la cultura occidentale è un’ideologia angosciante che promette un’esistenza di natura incerta ⎼ contro la promessa cristiana del rimedio ultimo all’inquietudine corporea.
Tommaso Amadei analizza in modo lucido e appassionato lo stato della Chiesa Cattolica e la concezione che oggi si ha del Cristianesimo, non lesinando critiche alla Chiesa e ponendo l’attenzione sull’impreparazione di molti sacerdoti e pastori, sull’importanza del corpo all’interno della riflessione sul Cristianesimo, influenzato dalla cultura ellenica, e sul concetto di dolore e alle sue declinazioni e derive ad esso collegate. Il masochismo ad esempio è una storpiatura della sofferenza e della sua accettazione.
Secondo Amadei il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più, ciò che abbiamo perso, ciò che non stiamo più cercando ormai. La nostra prima innocenza, infranta nel peccato d’origine.
Il dolore, se opportunamente vissuto, è anche una strada: di crescita umana e spirituale.
Essere cristiani è una grande sfida, non crede che oggi il Cristianesimo venga visto banalmente come un qualcosa che in fondo non dà fastidio e di conseguenza considerato con indifferenza?
È proprio così: il mondo odierno (inteso, secondo l’accezione giovannea, come dimensione sottomessa al dominio di Satana) cerca costantemente di marginalizzare la Fede cristiana, perché la detesta e ne è nemico in ogni modo, in maniera più o meno consapevole, più o meno surrettizia. Il depotenziamento del Cristianesimo vive di una duplice spinta: interna ed esterna.
Esternamente, poiché il mondo farebbe di tutto per distruggere la Religione cristiana e non avendo potere sulla sua origine (ossia il Dio Triunico), esso cerca di distruggerne le espressioni storiche denigrando la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, e corrompendone le membra, ovvero il popolo di Dio ed i suoi ministri e pastori. Vengono così operati un attacco ed una ridicolizzazione della fede, ritenuta vetusta, obsoleta, oscurantista e via dicendo; le superficialità che si sentono dire ogni giorno. D’altro canto, però, questa corruzione riesce a penetrare con una certa potenza nel tessuto ecclesiale, e ciò porta grandi ferite al popolo credente ed alla sua fede. Gli esempi, tragicamente, sono sotto gli occhi ed a portata d’orecchio di tutti.
Dal lato interno si può dire, con cuore pesante, che diversi strali del mondo hanno trafitto le coscienze di molti credenti, sia tra i laici che nel clero. La crisi è generalizzata, e tante sono state le riflessioni volte a lumeggiare questa situazione di degrado spirituale, e di conseguenza intellettuale e morale. C’è chi è riuscito a vederla arrivare da lontano, questa decadenza; sta di fatto, però, che certi impulsi intraecclesiali odierni sembrano assolutamente volti ad abbracciarla in tutto e per tutto. Un esempio a mio avviso inconfutabile, specie nel Cattolicesimo, è l’abbandono della catechesi del bello, ovvero mediante il bello: guardiamo all’architettura sacra contemporanea (e il più delle volte c’è davvero da chiedersi se si possa definire “sacra”, o non piuttosto il suo contrario); guardiamo all’aspetto musicale ed estetico della liturgia, santa Messa in primis. Sembra esserci una deliberata e totalizzante scelta del brutto, dello sciatto, dello squallido. La ridicolizzazione, a questo riguardo, viene operata da dentro. Questa è una perdita atroce e spaventosa. Mi si perdoni la crudezza, ma trovo che dalla richiesta di una Chiesa povera si sia giunti alla configurazione di una Chiesa poveraccia, miseranda.
Questo non è che un sintomo eclatante di un depauperamento sconvolgente dello spirituale e dell’umano che il Cattolicesimo sta vivendo da diverso tempo a questa parte.
Una cosa che noto, però, è che non appena viene esposta pubblicamente un’opinione sinceramente e pienamente cristiana, la mentalità dominante nella società occidentale spinge immediatamente a prendere misure restrittive a riguardo, o quantomeno a screditare fortemente una simile espressione di dissenso. A riprova del fatto che, in fondo, l’indifferenza è solo una facciata.
La cosa più importante che ha imparato studiando Teologia?
Credo di poter dire la cosa più importante che ho imparato nel corso di questi studi sia stata la comprensione della correlazione profonda tra la mia fede, le sue fattezze, la sua struttura, le sue sfumature e la mia vita presa sia nel suo aspetto quotidiano che nella sua globalità. Io sono molto lento a leggere ed a studiare di mio, ma questo si accentua quando mi pongo di fronte alla Sacra Scrittura, ai testi dei Padri e dei Dottori della Chiesa, dei grandi teologi vissuti lungo 20 secoli, perché mi sento come sprofondare nelle parole che incontro. Mi sembra di poter percepire la carne viva e pulsante della mia fede, fili luminosi ad intrecciarsi armoniosamente con la mia storia personale, il mio peccato, le mie perdite, le mie sconfitte; ma anche con le mie felicità, i momenti sereni e massimamente quelli in cui il respiro cattura un’aria che è altra, altra da tutto, e il trascendente si lascia percepire – i momenti della grazia, dell’epifania.
I miei studi mi hanno fatto percepire come la mia miseria e la mia abiezione siano state bagnate con dolcezza potente dal Sangue dell’Agnello. Qui c’è tutto il senso del perdono e della salvezza. Essi mi hanno permesso di appoggiare gli occhi dell’anima sul gran Sacrificio della Croce. Da qui ho saputo guardare con sguardo rinnovato le vite dei santi, la loro splendida comunione, l’unità profonda che intercorre tra essere umano ed essere umano nello scoprirsi figli di un unico Padre, una volta purificati in Cristo e toccati dallo Spirito; è a questo punto che ho notato che quei fili che si sono intrecciati con la mia storia raggiungono in realtà ogni storia, di ogni luogo e tempo. A volte ci rifletto, e mi viene da pensare che questa immensa trama formi come un meraviglioso arazzo, l’imperscrutabile piano di Dio.
È con queste riflessioni, scaturite dagli studi, che ho messo a fuoco una percezione ancestrale, tante volte ignorata: la vita è un abisso. Ora capisco che solo Dio ha la capacità di scrutarlo nella totalità della sua estensione. A noi chiede di abbandonarci a Lui in questo abisso.
Questo, credo, è ciò che di più importante ho imparato. Ora si tratta di viverlo.
Che tipo di educazione ha ricevuto, in quale contesto ed in che misura ha inciso il fatto di essere nato in Romagna?
L’educazione che ho ricevuto è stata eticamente, ma non religiosamente, cristiana; mi spiego: pur avendo ricevuto tutti i Sacramenti sino alla Confermazione, in casa non sono stato educato, almeno attivamente, ad una vita religiosamente attiva (ad esempio, con preghiere, letture bibliche e via dicendo). La mia famiglia ha sempre reputato importanti la dimensione religiosa e la questione della fede; tuttavia si sono sempre sentiti come a disagio ad impartirmi un’educazione esplicitamente cattolica, fatta eccezione appunto della frequentazione del catechismo il sabato pomeriggio e della ricezione dei suddetti Sacramenti. Ricordo una volta in cui mia madre mi disse che, se avesse potuto tornare indietro, non avrebbe esitato ad educarmi anche nelle cose della Religione. Per questo dico che l’impronta cristiana si poteva ritrovare più che altro nell’etica con cui sono stato educato: solo col tempo mi accorsi che, a tante cose che mi venivano dette essere giuste o sbagliate, sottostava un’ispirazione scaturita dalla Bibbia, in particolare dai quattro vangeli.
In generale, sono cresciuto in un ambiente abbastanza asettico dal punto di vista della Fede: non ne ho mai sentito parlare né dai miei amici, né dai loro genitori. Il catechismo ha avuto un’incidenza pressoché nulla nella mia visione religiosa. La Romagna ha tante belle testimonianze di fede e di santi straordinari; tuttavia, la mia percezione è che, a meno che non si frequenti l’ambiente religioso, sia difficilissimo entrare in contatto con esse nel quotidiano. Sono sepolte dalla polvere del tempo e della dimenticanza. È qualcosa che ho percepito più che altrove, forse perché ho passato qui la maggior parte della mia vita.
Indubbiamente l’ambiente in cui sono cresciuto ha influito molto, specie nell’indifferentismo e nell’allontanamento dalla Fede stessa. L’insignificanza che il fatto religioso ha nella vita di tanti, in particolare di una gran fetta di adolescenti, spinge ovviamente a prendere le distanze da esso quando si giunge in quell’età. A questo si aggiunse la tradizione anarchica e dissacrante di questa terra, che percepivo come una sorta di eredità politico-esistenziale. Mi ha sempre affascinato molto la storia romagnola di insubordinazione e refrattarietà, e questo mi portò ad una forte avversione alla Chiesa ed alla fede cristiana e religiosa in generale.
Negli anni, dopo la mia conversione, sento di aver integrato nel mio vissuto di fede alcuni elementi di quell’essere terrigno, anche se l’individuarli rappresenta un lavoro che va ancora affinandosi nel tempo. Al contempo, guardo i grandi santi della mia città e ritrovo quella bella sensazione di un’eredità ricevuta, pur di segno diverso, che è da preservare in qualche modo.
Come definirebbe il rapporto tra nobiltà e clero di una volta e quello odierno?
Premetto che non sono assolutamente un esperto di questo tema, in special modo della nobiltà odierna e men che meno sui suoi attuali rapporti col clero; ad ogni modo, mi par di capire che, specialmente dalla tarda antichità in poi, i legami tra papato/curia/episcopati e nobiltà si siano stretti sempre di più. Se questo, da un lato, è comprensibile a motivo della maggior possibilità di istruzione delle classi sociali più elevate, dall’altro ha indubbiamente creato grosse problematiche con nomine fatte ad hoc, per interessi di casata e via dicendo. Questioni che la Chiesa ha dovuto affrontare a più riprese e dalle quali è stata flagellata per secoli.
Oggi viviamo in un mondo in cui, comunemente, è difficile sentir parlare di titoli nobiliari, casate e dinastie, se non sui libri di storia; ancor più raro è incontrare persone che effettivamente li posseggono. So, più per sentito dire che per altro, che alcune famiglie nobili (o alcuni dei loro membri) intrattengono ancora rapporti con alcuni vescovi e cardinali; mi pare di capire, però, che si tratta più che altro di relazioni che vertono discussioni sulla Fede e sull’attualità. Sarò sincero: non ho nemmeno mai avuto l’idea di approfondire questo ambito, pertanto sono molto ignorante a riguardo.
Quello che posso dire è che, come in tanti altri casi, il rapporto tra clero e nobiltà è stato ambivalente: se da un lato, tra il X e l’XI secolo, la Chiesa ha dovuto patire due Papi indegni come Giovanni XII e Benedetto IX (nomine frutto degli interessi di casate aristocratiche dell’epoca), d’altro canto – in tempi recenti – ci è stato donato un Papa Pio XII da una famiglia nobile. Il problema scaturisce sempre quando all’umile accettazione e preservazione della Fede cristiana subentra la superba e parossistica ricerca del proprio tornaconto e dell’affermazione della propria volontà.
Dostoevskij diceva che l’uomo è attratto dalla sofferenza? Lei cosa pensa?
Non conosco Dostoevskij al punto di metter bocca sulla sua riflessione a riguardo del dolore; di certo posso dire di essere convinto del fatto che l’uomo ha un rapporto del tutto particolare con la sofferenza. Essa è un’esperienza, potremmo dire, “peri-originale”, in qualche modo vicinissima all’oggetto di quel nucleo di nostalgia che contraddistingue, più o meno consciamente, la nostra esperienza di vita su questa terra.
In questo senso, essa ci riporta nelle profondità recondite della nostra interiorità, l’imo della nostra anima. Forse mi sbaglio, e magari è solo una suggestione mia, ma talvolta penso che il dolore riesca a riportarci a considerazioni più ampie e tendenti all’Altro ed all’Altrove proprio a motivo di questa sua prossimità con il tempo ed il luogo prelapsari, rimasti impressi nella memoria spirituale dell’essere umano.
Il cristiano ha un legame ulteriore con la sofferenza a motivo della Passione e Morte del Signore Gesù Cristo. Egli sa che le sofferenze patite da Cristo sono salvifiche per lui e per tutta l’umanità passata, presente e futura. Con “salvifiche” non si intende semplicemente liberatorie rispetto al peccato; e nemmeno ci si limita a professare una semplice reintegrazione nello stato di vita originario edenico. Esse, infatti, sono anche elevanti: non solo Cristo ha preso carne ed anima umane nell’Incarnazione e le ha redente versando il Suo sangue sulla Croce, ma le ha addirittura glorificate mediante la Risurrezione, rendendo possibile a chiunque Lo accetti e Lo custodisca nel cuore l’accesso alla vita stessa di Dio nello splendore della Sua presenza. Io sono convinto del fatto che ogni essere umano, nella sua dimensione spirituale, percepisca questa meraviglia senza eguali, e forse anche per questo vive quella tensione nei confronti della sofferenza.
Da una prospettiva meno luminosa, invece, si potrebbe forse dire che l’uomo può subire la suddetta attrazione, spogliata del suo carattere soteriologico ed amorevole, a causa del degrado morale ed esistenziale in cui versa il suo abitare la società del XXI secolo. In questo caso il rapporto uomo – tribolazione è ambiguo e contraddittorio: nel mondo odierno, si è passati dal tabù della sessualità a quello del dolore, della morte e del limite; la sofferenza viene spinta ai margini della vita sociale ed individuale, come se fosse un’esperienza da evitare a tutti i costi, dal momento che la vita dev’essere esattamente come la vogliamo noi, senza spazio possibile per le sensazioni indesiderate. È la nostra volontà a dettare legge, in quest’ottica.
D’altro canto, però, si moltiplicano i comportamenti distruttivi ed autodistruttivi, permettendo una risacca di dolore incontrollata nella vita dell’uomo contemporaneo. Questo flusso di ritorno è però devastante, perché non risponde al summenzionato indirizzo naturale e soprannaturale della sofferenza.
Il movimento a spirale che induce un simile atteggiamento fa precipitare l’individuo in un meccanismo dal quale diventa difficile affrancarsi: il dolore, così vissuto, finisce per annientarlo. Bisogna assolutamente resistere a questa dinamica.
La questione che pongono soprattutto gli atei esistenzialisti riguarda proprio il dolore, la sofferenza, eppure è inconcepibile per l’essere umano pensare ad un mondo privo di dolore. A cosa serve il dolore? Perché a volte ci piace essere masochisti?
Il masochismo è una storpiatura della sofferenza e della sua accettazione. Sono convinto non sia il modo autentico di vivere il dolore: il masochismo nasce quando si perde la capacità di comprenderlo, di comprenderne la natura, l’origine primaria (non tanto quella immediata, dunque), l’indirizzo, lo scopo. Questo nostro mondo, mi pare, ha l’enorme difetto di essere diventato incapace di soffrire come si deve, ovvero di vivere la sofferenza come mezzo, come transizione. Si rigetta totalmente l’idea di sacrificio, fondamentale per ogni ambito dell’esistenza umana e della sua esperienza, ed in questo modo rimane solo un dolore crudo, solitario, sperso. Forse, ci piace anche essere masochisti perché abbiamo imparato a vivere il dolore come traguardo e non come sentiero.
Personalmente, posso dire che il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più, ciò che abbiamo perso, ciò che non stiamo più cercando ormai. La nostra prima innocenza, infranta nel peccato d’origine.
Il dolore, se opportunamente vissuto, è anche una strada: di crescita umana (emotiva, sentimentale, speculativa e così via), e spirituale: il dolore accettato ed offerto è croce che si integra nella Croce del Figlio amato. C’è una forte correlazione tra la sofferenza e la vita eterna in questo senso, e la prima esprime così tutta la sua potenza catartica.
Penso che il dolore serva a questo, anche se mi rendo conto che questa è una risposta assolutamente limitata.
In Memorie dal sottosuolo, sempre Dostoevskij sostiene che anche la persona più colta ed erudita possa essere abietta. Dunque la cultura, la conoscenza non bastano alla salvezza? E non è vero che chi compie il male lo fa perché non conosce il bene..
Purtroppo no, non bastano. Questa linea fu seguita con un impianto esoterico dallo gnosticismo: la conoscenza che salva, riservata a pochi. Il racconto genesiaco è qui letto al contrario: al Dio “cattivo” dell’Antico Testamento si contrapporrebbe il serpente, nel quale tutti i Padri della Chiesa riconoscono il Tentatore, il quale libererebbe l’uomo inducendolo a mangiare il frutto della conoscenza bene e del male; il frutto è dunque l’accesso ad una conoscenza celata.
Tralasciando l’aspetto esoterico-gnostico, similmente non è sufficiente avere una vasta conoscenza delle cose del mondo né per la salvezza, né per essere persone dedite alla giustizia ed alla verità, Dostoevskij ha ragione; ma nemmeno è bastevole la scienza delle cose di Dio in tal senso. Certo è che la conoscenza, qualsiasi direzione prenda, rappresenta la costruzione di un percorso privilegiato per l’affrancamento dalle spire venefiche di questo secolo; ma se essa è distaccata dalla consapevolezza di essere creature mortali e limitate e del fatto che vita terrena e vita eterna sono doni così come dono è la stessa conoscenza cui possiamo attingere e che possiamo fare nostra, allora difficilmente servirà a qualcosa di buono e di fruttuoso.
Che il male lo compia chi non conosce il bene può essere vero in parte: forse chi agisce malvagiamente non ha totale contezza di cosa sia il bene, forse la sua consapevolezza è offuscata in un determinato momento di debolezza. Non è detto però che non l’abbia mai conosciuto, mi viene da dire; sia ripensando alla mia personale esperienza, sia avendo in mente alcune storie di vita specifiche.
Forse, si potrebbe dire anche che chi compie il male difficilmente ha una piena coscienza di cosa sia il male stesso, quali le sue conseguenze ed il suo impatto sulla realtà globale della nostra persona.
Eppure, ho come il timore che ci sia chi sa riconoscere i due sentieri ed intraprende quello più buio con tutta la portata della propria volontà.
Ad ogni modo, su una cosa non ci sono dubbi: la carne è sempre debole, qualsiasi sia il peccato al quale si lascia andare. Viviamo avviluppati in un rovo di concupiscenza dal quale dobbiamo emanciparci, e questo non può che essere fatto con l’aiuto dello Spirito Santo. La conoscenza, che è compresa in uno dei Suoi 7 doni, è una conseguenza della potenza divina che può soffiare sull’uomo, se questi apre la porta del proprio cuore. Essa aiuta ad amare ancor più profondamente ciò che viene conosciuto e riconosciuto come buono, ed a respingere e detestare ciò che viene individuato come malvagio. Questa è la conoscenza che salva: la Sapienza di Dio.
“A ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè una convinzione di cose invisibili”, diceva il teologo e matematico Pavel Florenskij. Come si pone di fronte a tale affermazione?
Florenskij conosceva le Scritture e le scrutava seriamente. Mi chiedo se, nel dire ciò, avesse in mente anche la parabola dei talenti del vangelo di Matteo (Mt 25, 14-30), parallela a quella delle mine del vangelo di Luca (Lc 19, 11-27). Il Signore non dà lo stesso numero di talenti/mine a ciascuno dei servi, ma ne dà più ad uno e meno agli altri. Io penso che Dio abbia fin dall’eternità un piano perfetto per ciascuno di noi, benché uno possa essere meno eclatante di un altro.
Sebbene una simile idea possa sembrare ingiusta agli occhi dell’uomo (oggi forse qualcuno direbbe anche “discriminatoria”), non bisogna dimenticarsi che a sondare ogni cosa nella sua profondità più remota è solo Dio, e solo Lui capisce quale sia l’importanza, la centralità, la risonanza di ogni azione e di ogni storia. Pertanto, non dovrebbe stupire nessuno se a qualcuno è chiesto di credere fino a dove Dio ha voluto, più o meno che sia rispetto al suo prossimo. Solo il Signore conosce l’equilibrio perfetto di ogni cosa.
Inoltre, è interessante riflettere sulla fede come “convinzione di cose invisibili”. È oggi mentalità diffusa quella che fa corrispondere il non-visto al non-esistente, l’immateriale al non-essere. Questa prospettiva sta impoverendo e facendo appassire l’intelligenza umana del reale, troncando l’esperienza nella sua prospettiva più abissale: quella significata dal simbolo. La vita svuotata di questo oceano di senso finisce per risultare insensata e, di conseguenza, manipolabile.
Dio tutto ha disposto nella Sua sapienza. Bisogna imparare quindi ad accettarla, ad accettare la misura che ha voluto donarci: essa è la sola giusta per noi. Fuori di questo, c’è solo infelicità e disumanizzazione.
La scienza è la nuova religione nell’Occidente secolarizzato?
Più che la nuova religione di questo Occidente moribondo, direi che la scienza odiernamente intesa è uno dei suoi volti. Detta nuova fede si può forse definire come la religione dell’uomo: l’uomo che si autodivinizza, che si erge a “dio” con le sole proprie forze.
La storia di salvezza del Cristianesimo è la storia di come Dio Si è fatto carne per redimerci e permetterci di partecipare alla vita divina, in seno alla Santissima Trinità. Che l’uomo odierno cerchi di divinizzarsi da sé, più o meno consapevolmente, è la risposta satanica ed ingrata che egli restituisce al suo Creatore e Salvatore.
La scienza, oggi spacciata come unico sapere certo e definitivo (ciò che non è), diventa una delle bandiere sotto le quali sbraitare slogan preconfezionati e giustificare ideologie in modo assolutamente arbitrario. La cosa divertente è che lo scientismo ed il positivismo sono filosofie morte alla loro nascita; purtroppo, però, vengono ancora proposte popolarmente ed hanno grande presa. Questa non è una scienza al servizio dell’essere umano e della comunità. Piuttosto, essa è una scienza “antropoclasta”, un altare eretto alla religione umana sul quale sacrificare l’uomo all’ideale autodivinizzato dell’uomo, cosa che si configura concretamente nei modi più disparati.
Essa diventa dunque funzionale a questo nuovo credo, facendosi carico di fondare con un linguaggio rigoroso i suoi articoli di fede, i suoi dogmi. Forse parlo a sproposito, ma mi chiedo se non si possa equiparare al linguaggio metafisico usato dalla Chiesa fino a metà ‘900 per esporre la propria dottrina, almeno per quanto concerne questa sua funzione peculiare.
Non pensa che concepire la sofferenza come prova di fede, rappresenti una visione troppo limitata se non addirittura ingenua della presenza del male nel mondo? D’altronde nemmeno nel Libro di Giobbe non si dà una spiegazione alla questione..
Dipende dall’idea che abbiamo della prova di fede, mi verrebbe da dire. Se la si intende come un “test” fine a se stesso somministrato dalla Divinità per valutare le proprie creature, assolutamente sì. Se, invece, per prova di fede intendiamo prova d’amore, non la trovo una prospettiva limitata, seppur da comprendere ed integrare. Il dolore è conseguenza della nostra complicità col demonio, della nostra insubordinazione a Dio. La nostra vita non era pensata per essere sofferenza e tribolazione. Dal momento, però, che la nostra situazione è diventata questa, allora vedere nella sofferenza una prova di fede significa trovarle un indirizzo ed un significato profondo.
Il libro di Giobbe non ci scioglie la domanda sull’origine del male in maniera diretta, ma di certo ne sottintende la risposta (che è disseminata lungo tutta la Bibbia e, successivamente, nelle espressioni del Magistero della Chiesa attraverso la storia): la presenza di una misura di non-amore. Ecco la scintilla del grande sconvolgimento metastorico della ribellione luciferina contro Dio: la presenza del male nel mondo è comprensibile solo nell’ottica in cui all’amore sconfinato di Dio non si corrisponde con un amore caricato di tutta la forza ed estensione di cui si è capaci.
Ciò che ci insegna il libro di Giobbe è che, come detto poc’anzi, l’abisso di questa vita è scrutabile nella sua totalità solo da Dio. Pertanto, il dolore non va né ricercato, né respinto: quando arriva, va vissuto affidandolo ed affidandosi al Signore, offrendo tutto a Lui. Ciò non significa evitare le domande e le ambasce, e nemmeno significa arrendersi e crogiolare nel dolore che arriva; ma vuol dire accoglierlo da un’altra prospettiva. È così che Giobbe venne ristabilito nella sua fortuna, la quale viene addirittura raddoppiata rispetto al passato.
Qual è secondo lei il più grande problema che attanaglia la Chiesa? E quale dovrebbe affrontare in modo più deciso?
Mi sembra che, in assoluto, il maggior problema a soffocare la Chiesa oggi sia la gigantesca crisi di fede che sta vivendo. Non si tratta di una decadenza spirituale circoscritta a pochi preti; purtroppo oggi, in maniera più o meno velata, si vedono molti pastori e figure di riferimento ecclesiale esprimersi in modo imprudente ed impreciso, quando non mondano o addirittura eretico. Non è solo questione di impreparazione teologica ed umana; sembra che molti vogliano contraddire a priori la Tradizione della Chiesa e correre incontro al mondo a braccia aperte: si cercano costantemente punti di contatto e di vicinanza, di stima e di amicizia, ricerca che viene puntualmente disattesa. Non potrebbe essere altrimenti: lo spirito di questo mondo è tenebroso, rifugge la luce. Ce lo dice il Prologo di Giovanni: il mondo non lo ha riconosciuto, i suoi non l’hanno accolto. Il Signore che viene per distruggere le catene del nostro peccato e permetterci di accedere ad una comunione di vita con Lui trova resistenza, sempre l’ha trovata e così continua ad essere, oggi più che in altre epoche. Questa continua rincorsa dietro al mondo sta lacerando la fede del popolo credente, clero e laici. Si sentono dire cose inaudite. Quando la mentalità mondana entra nel Tempio di Dio, si rende necessaria una grande, tremenda purificazione.
A corollario, discende una serie di conseguenze devastanti dal punto di vista morale e sociale; quell’argine che la Chiesa ha rappresentato per secoli alle spinte demoniache nella società sembra cedere di proposito in alcuni punti. Il mondo guadagna metri, e con essi le anime che vi abitano. Questa è una tragedia immane.
Tutto questo relativismo nella fede crea terreno fertile per quella corruzione intraecclesiale di cui sopra, che oggi sembra serpeggiare con una potenza che si è vista raramente in altri momenti della storia.
Questa è la piaga che la Chiesa dovrebbe affrontare con maggior decisione. Così facendo, risanerebbe tanti sintomi che si manifestano a motivo di questa situazione.
Se parliamo di sintomi da contrastare, invece, sono convinto che il primo da eliminare con tutta la forza possibile, in quanto più disgustoso e disumano e distruttivo per il corpo e nocivo per l’anima, sia la questione degli abusi sessuali. Non è concepibile in nessun modo un fenomeno così assolutamente satanico; diventa ancor più inconcepibile se i colpevoli di una simile mostruosità sono sacerdoti o comunque esseri umani vicini agli ambienti di Chiesa, ovverosia quei luoghi in cui ogni persona dovrebbe trovare rifugio, conforto, riparo, comprensione, cura.
Un altro sintomo della crisi nella Chiesa, grave in maniera decisamente diversa rispetto a quello precedente, è la presentazione della vita come gioia, a tratti spensierata. Mi ha colpito molto la critica che Romano Amerio muove nella sua opera Iota Unum esattamente a questo riguardo (che fu per me, in adolescenza, motivo di allontanamento dalla Chiesa). Egli nota accortamente la descrizione che si fa della vita in orazioni antiche (si prenda l’esempio del Salve Regina: “valle di lacrime”), e come questa concezione sia tramutata ultimamente a causa di un atteggiamento che ha i tratti della superficialità e del distacco dalla realtà. La visione edulcorata del mondo tratteggiata da una certa omiletica e da un certo filone comunicativo cattolico (e mi pare di capire che la cosa non si limiti all’ambito cattolico) mi sembra sia stata veramente deleteria per la nostra società. Credo che sia molto più onesto e fedele allo stato delle cose in questa dimensione immanente dipingere l’esistenza così come risalta, tanto per menzionarlo nuovamente, nel libro di Giobbe, al capitolo 7: «Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?».
La vita è soprattutto affanno, guerra. Le potenze infernali ci muovono costantemente battaglia in molti modi diversi ed in innumerevoli circostanze differenti, e questo per guadagnarsi la nostra rovina ed il nostro distacco eterno da Dio. Dovremmo parlarne ogni giorno, per non scordarcelo mai. Invece si fa l’esatto contrario, ed è così che si diffonde l’idea che la vita debba essere costantemente piacevole e che le difficoltà siano da estirpare alla radice, e non piuttosto da vivere in Cristo per la nostra santificazione.
In questo contesto, nemmeno la morte viene più presa sul serio. Sembra quasi che l’Inferno quale estrema conseguenza del peccato e massima espressione tragica del libero arbitrio abbia cessato di esistere nella predicazione di tanti preti, a discapito della salute di molte anime.
Ad ogni modo, è ovvio che nessun cristiano può ignorare la promessa fatta dal Signore Gesù Cristo e che leggiamo alla fine del vangelo di Matteo: Egli sarà con noi fino alla fine del mondo. Per fede sappiamo che la Chiesa non può finire, per quanto sia estesa e buia la sua crisi.
Quali sono secondo lei le più grandi contraddizioni del nostro tempo che solo la fede può risolvere?
È una domanda molto bella e gigantesca, pertanto la risposta non potrà che essere parziale. Io credo che l’uomo, privato della fede, e ancor più mutilato nella sua dimensione spirituale (negata oggi dalla mentalità dominante), si ritrovi disorientato e nudo di fronte ai baratri della vita, ovvero quei momenti nei quali il quotidiano collassa su se stesso e ci si accorge più facilmente dello spessore della nostra esistenza. Corriamo sempre il rischio di ridurre il quotidiano a banalità: così non è. Intravedere e leggere in ogni cosa la presenza di Dio polverizzerebbe l’insensatezza nella quale la concezione occidentale della vita sta sprofondando a causa dell’assenza di Dio nella società. Questa forse è, a mio avviso, la più grande contraddizione: l’impegno profuso per costruire qualche cosa nella mancanza di un senso oggettivo e trascendente, con la prospettiva di un annullamento totale di ogni slancio ed azione nel vuoto annientatore della morte. Che senso avrebbe quindi prodigarsi nel rincorrere un successo sfrenato, costruire un’immagine di sé piena di mondanità, ricercare il divertimento perpetuo e fine a se stesso? Ma allo stesso modo, che senso avrebbe impegnarsi a costruire una famiglia, relazioni di senso, stabilità ed equilibrio? Che senso avrebbe la ricerca, sia essa scientifica o filosofica? A che pro lasciare un’impronta nella storia, quando questa non diventa che una scatola chiusa, una grande prigione che non lascia sperare in prospettive ulteriori?
Con l’estromissione di Dio dalla vita dell’uomo, quest’ultima diventa un giochino senza valore che tentiamo disperatamente di imbastire ed adornare, pretendendo di conferirle un senso che possa sussistere in qualche modo. E come potrebbe? Noi siamo mortali, limitati nello spazio e nel tempo, finiti, corruttibili. Ogni cosa che tentiamo di creare da noi stessi ha le medesime nostre fattezze, ed ogni senso che possiamo provare ad approntare, se slegato da Dio, non sarà che un angosciante tentativo di scaricarci del peso insostenibile di un’esistenza che ha così perso direzione e consistenza propria, divenuta soltanto cieco ripetersi di giornate fini a loro stesse, di gesti e pensieri fini a loro stessi, intrappolati in questo vortice di vuoto che proviamo invano a riempire. Questo è il nichilismo che oggi ci divora, e l’aspetto peggiore è che, in larga parte, esso sta diventando sempre più meccanismo inconsapevole. Non è più una scelta oppositiva attiva ai valori diffusi come poteva esserlo una volta, ma è assurto ormai ad atteggiamento dominante nell’Occidente contemporaneo. Nietzsche non sbagliò nel suo ammonimento: ciò che andava dicendo non era che la “profezia” sui due secoli che sarebbero seguiti.
Perciò l’ateismo propositivo che oggi viviamo e vediamo diffuso in ogni dove è pura follia ed incoerenza. È fondamentale che il cristiano segnali le anomalie del presente, che renda onore al suo compito profetico nella società.
Lei insegna religione, quali sono le domande che le fanno più spesso e qualcuna l’ha messa in difficoltà?
L’interrogativo che mi è stato posto in ogni classe, trasversalmente a ciascuno dei cinque anni delle superiori nei tre istituti in cui insegno, è stato: «Perché insegna religione? Perché crede?». L’idea che un ventisettenne possa interessarsi a tal punto del fatto religioso da studiarlo e farne un lavoro incuriosisce molto i ragazzi, abituati come sono perlopiù all’assenza completa dell’aspetto spirituale nell’ambiente in cui vivono.
Le domande che tornano più frequentemente si possono ascrivere a due categorie diverse: quelle etiche e quelle metafisiche. Per ciò che concerne quelle etiche, i temi che tornano di più sono naturalmente quelli che impegnano odiernamente le discussioni politiche e bioetiche maggiormente diffuse: aborto, eutanasia, diritti civili.
Quelle di stampo metafisico riguardano invece l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio: come fa un Dio onnisciente e che può tutto a non frantumare la libertà umana? Una questione molto dibattuta anche a livello filosofico, nell’ambito della teologia razionale.
Personalmente, la domanda che mi mette sempre in difficoltà, emotivamente parlando, è quella sulla sofferenza innocente. Perché Dio permette che l’innocente patisca a volte anche in maniera intensa? In particolare i bambini. È un interrogativo straziante, che colpisce sempre con potenza; di fronte al dolore dell’indifeso, che stravolge l’animo umano, spesso mi ritrovo a balbettare e a far fatica, perché metterci bocca significa toccare corde delicatissime. Il timore non sta tanto nella possibile reazione dell’interlocutore, quanto nell’idea di poter mancare di rispetto, di essere indiscreti o di essere non volutamente irrispettosi verso qualcosa di così abissale.
Non esiste nessuna religione come il Cristianesimo che stimi il corpo, eppure alcuni affermano ancora oggi che il cristianesimo, fondato sull’incarnazione, disprezza la carne. Tale convinzione può essere dovuta all’influenza esercitata da Sant’Agostino, che recuperò Platone, piuttosto che da San Tommaso d’Aquino?
Indubbiamente, se una radice ha da ricercarsi in questa storpiatura, essa si troverà nell’impianto platonico assunto da sant’Agostino e nella corrente da lui scaturita. Non che sant’Agostino condividesse acriticamente le conclusioni antropologiche sul corpo proprie di platonismo e neoplatonismo; semplicemente, questo Dottore della Chiesa ne utilizzava il linguaggio e gli strumenti filosofici, cercando di adattarli al dato cristiano. Una lettura attenta delle opere di sant’Agostino è più che sufficiente a sciogliere ogni fraintendimento.
San Tommaso d’Aquino, avendo saputo raccogliere il meglio delle filosofie aristotelica e platonica per metterlo a servizio del dato di fede cristiano, non avrebbe mai potuto disprezzare il corpo, come invece è potuto avvenire quando l’influsso platonico ha potuto prendere il sopravvento sulla riflessione teologica lungo la storia.
Forse sbaglio io, forse sono io a non avere una visione globale della questione per com’è affrontata da questo o quell’autore in particolare, ma non credo che tale convinzione sia da ascriversi a sant’Agostino o a qualche altro Dottore della Chiesa; credo che essa discenda piuttosto da una lettura superficiale ed una comprensione parziale dei loro scritti, e nello specifico di quelli agostiniani.
I problemi nascono quando i teologi amano più la loro creazione speculativa (ed i suoi specifici strumenti filosofici) piuttosto che l’integrità del dato di fede scaturito dalla Rivelazione. In questo senso, potremmo dire che la tendenza al disprezzo del corpo nasce in una ricerca teologica degradata, che si è lasciata sopraffare dalle categorie filosofiche che andava utilizzando di volta in volta per approcciarsi in maniera rigorosa e razionale ai suddetti dati di fede.
È verissimo: il Cristianesimo stima il corpo, e ciò è dimostrato non solo dal fatto che il Signore Dio nel libro della Genesi afferma che l’essere umano è creazione “molto buona”, ma anche e soprattutto a motivo dell’Incarnazione (come segnalato già nella domanda) e della Risurrezione, che comprende anche il corpo, pur trasfigurato. La prospettiva di un Dio che assume la corporeità umana spazza via qualsiasi idea di disprezzo del corpo in sé. Il cristiano, piuttosto, del corpo disprezza le conseguenze della ferita del peccato originale: la concupiscenza, gli appetiti bassi, le tensioni disordinate.
Tertulliano scriveva che la carne è il cardine della salvezza. Qualsiasi tentazione tesa a svalutare il corpo in sé non può e non deve trovare spazio in qualsiasi teologia che voglia essere pienamente cristiana.