<<Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria>>.(Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”).
Le parole di Pavese sembrano siano state cucite addosso al nuovo romanzo dello scrittore americano Peter Cameron, Il week-end, dove piccolezza, meschinità, turbamenti quotidiani, si perdono nella potenza della natura.
E’ trascorso ormai un anno esatto dalla morte di Tony, fratellastro di John e amante, per nove lunghi anni, di Lyle, critico d’arte di New York. Marian, moglie di John, ha così deciso che è giunto il momento di ricreare quell’atmosfera, quei magici momenti che custodisce nel cuore, quei momenti che il tempo non ha cancellato, sbiadito, portato con se. Ma ciò che i due coniugi ignorano è che Lyle, dopo il successo del suo ultimo libro sull’ascesa e sulla caduta dell’arte contemporanea, ha incontrato un giovane, Robert, di cui si è invaghito, in cui ha rigettato le sue speranze , quell’attesa interminabile “che la sua vita stia per cambiare“.
E così, quello che sarebbe dovuto essere un momento fatto di dolcezza, malinconia, lacrime e sorrisi, ricordi di un dolore mai cancellato, diventano una serie infinita di momenti imbarazzanti, parole non dette, silenzi colmi di rabbia e finta indifferenza verso quell’incontro che sporca ogni singolo ricordo, un amore che il tempo, mai, potrà cancellare. Perché, il tempo non cancella le ferite, non può farlo. Il tempo, quello che scorre forse troppo velocemente per chi, come Lyle, è rimasto aggrappato ad una flebile speranza che, un giorno, si possa sorridere ancora, è legato alla consapevolezza che nulla, sarà mia più come prima. Nulla potrà mai più riportare indietro l’amore di una vita intera.
Peter Cameron, ci mostra la dolcezza, la bellezza, la paura, di entrare nei meandri nascosti della mente umana. Sentimenti che si cerca di nascondere ad un mondo indifferente ai nostri dolori, perché ogni dolore appartiene, in modi e misure diverse, solo a chi ha subito quella perdita, quella perdita che con se, porta via anche la speranza di poter, un giorno, essere ancora in grado di sorridere, amare, ricominciare. Attraverso le sue parole, Cameron, porta il lettore in quel mondo segreto, nascosto, chiuso nell’anima di ogni personaggio, di ogni uomo. Un luogo in cui le domande, le ansie, le angosce, le paure, restano sigillate, chiuse e pronte ad esplodere, come un vecchio armadio che non può contenere più nessun abito.
Ma Lyle lo sa, è consapevole del pericolo in cui incorre nel portare questo giovane ventiquattrenne in quel luogo in cui la presenza di Tony è ancora troppo viva, nonostante quell’assenza concreta a cui, nessuno, potrà mai riparare. Perché Tony è li. In ogni oggetto, in una cena in giardino, in un bagno nel lago, in ogni parola, sguardo… in ogni lungo silenzio.
In un tempo labile, veloce, eppure lento e inesorabile, in quel weekend in cui tutto, avrebbe dovuto essere perfetto, la presenza di Tony è ancora troppo “viva” per poter anche solo sperare di dimenticare quella nuova presenza incarnata nel volto di Robert che, in qualche modo, sostituisce, o forse semplicemente occupa, un posto che non può, non deve appartenergli.
Ed è il dolore a dare consapevolezza. Il dolore, quello nascosto al resto del mondo, quello con cui facciamo i conti quando apriamo gli occhi e, solo per un istante speriamo sia stato solo un brutto sogno, cerchiamo di percepire ancora una presenza che, ormai, è solo assenza.
“Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che il tempo porta via è andato, e poi si resta con qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai.”
Un libro che si legge con piacere, per la straordinaria capacità di far immergere il lettore in quell’atmosfera minimalista dove lo scrittore analizza la psiche umana.