Un incandescente bagliore; è stato questo Helmut Berger nella storia del cinema italiano. L’attore austriaco, scomparso lo scorso 18 maggio, ha legato per sempre il suo nome a quello del grande regista italiano Luchino Visconti, la cui poetica si sposò perfettamente con il talento e la bellezza ultraterrena e inquieta di Berger.
Sotto la direzione di Visconti, Berger interpretò in modo magistrale protagonisti dalla personalità complessa e contorta, che lo rispecchiavano. Dopo di lui, è difficile poter dire con certezza di aver assistito ad una medesima espressione di sentimenti ed emozioni opposte: lo sguardo dell’attore esprimeva una dolcezza infinita mentre l’increspatura delle labbra comunicava cinismo e una certa dose di crudeltà. Il tutto nella stessa inquadratura.
Visconti scavò profondamente nell’interiorità di Helmut Berger fino a fare emergere la sua duplicità caratteriale che lo ha sempre contraddistinto come attore. Dopo Visconti nessun regista è più riuscito a valorizzare le enormi potenzialità istrioniche di Berger, che ha sempre amato definirsi la vedova di Visconti.
Nato a Salisburgo nel 1944 da una famiglia di albergatori, Berger non proseguì mai la strada battuta dai genitori, ma si ritrovò presto, grazie alla sua bellezza seducente ed eterea, a lavorare come modello mentre prendeva lezioni di recitazione. Poi l’arrivo in Italia, inizialmente a Perugia, dove frequentò i corsi di teatro all’Università per stranieri, per poi decidere di tentare la fortuna a Roma.
Fu proprio nelle capitale che Berger iniziò a lavorare come assistente cinematografico e qui, nel 1964, durante le riprese del film Vaghe stelle dell’Orsa, conobbe Luchino Visconti. Fu proprio grazie al sodalizio artistico e personale con il cineasta milanese che Berger ottenne il suo primo ruolo, nell’episodio (diretto da Visconti) La strega bruciata viva del film Le streghe (1967). Appena un anno dopo, nel 1968, arrivò la sua prima parte da protagonista nel film I giovani tigri, diretto da Antonio Leonviola.
Ma il vero successo arrivò con La caduta degli deì (1969), primo capitolo della “trilogia tedesca” di Visconti, dove Berger fu il luciferino e depravato Martin von Essenbeck, ruolo che gli valse una nomination al Golden Globe. Sempre con il regista milanese, vestì i panni dell’infelice Ludovico II di Baviera in Ludwig (1973) e quelli del cinico Konrad in Gruppo di famiglia in un interno del 1974. Qualche anno prima, nel 1970, l’attore ebbe anche l’opportunità di lavorare con Vittorio De Sica nel celebre Il giardino dei Finzi Contini (vincitore del premio Oscar 1972 come miglior film straniero) e, nel 1972, con Nelo Risi nel film La colonna infame.
Con la scomparsa di Visconti, l’attore austriaco iniziò a soffrire di depressione che lo portò a dichiarare di “essere divenuto vedovo a soli 32 anni“. Iniziò ad assumere alcool e sostanze stupefacenti, conducendo una vita sregolata, che lo costrinse a più di una sosta forzata, dopo che nel 1977 rischiò la morte per eccesso di droga.
Le offerte da parte del cinema iniziarono a scarseggiare e Berger decise di gettarsi a capofitto sul piccolo schermo, tornando in scena nell’adattamento televisivo del romanzo Fantomas dell’amico Claude Chabrol (1980), sceneggiato che ebbe il merito di riaccendere su di lui le luci dei riflettori. Durante gli anni Ottanta partecipò poi alla terza stagione statunitense della serie tv Dynasty, nel 1985 al film di guerra Cold Name: Emerald, per poi tornare in Italia nel 1989 e interpretare Egidio nello sceneggiato tv i Promessi Sposi e il ruolo del banchiere svizzero Keinszig ne Il Padrino III di Francis Ford Coppola (1990).
La produttrice Marina Cicogna, ha sempre sostenuto che il rapporto che legava Berger a Visconti era basato sulla crudeltà e che i suoi eccessi facevano parte della vita dell’attore anche prima della morte di Visconti, la persona più autodistruttiva che abbia mai conosciuto la produttrice: portava via quello che poteva dalla casa di Visconti; la situazione si appesantì quando Berger scoprì che, a parte una casa, non aveva avuto una lira da Luchino, che scriveva un testamento dopo l’altro.
«A Helmut non fregava niente di nessuno, dal punto di vista sentimentale», ha inoltre affermato Marina Cicogna. Sembrerebbe che la relazione tra tra Visconti e Berger fosse a tutti gli effetti un legame di subordinazione al regista milanese, d’altronde la maggior parte degli attori coinvolti nelle sue produzione, sono stati marchiati a vita, pagando un dazio artistico, emotivo e psicologico; quasi avessero assorbito l’animo di Visconti, la sua solitudine, il suo ingegno, la sua fatica mentale, i suoi sadismi, le sue mane, le sue concupiscenze, i suoi strazi, la sua stanchezza del sole, come Macbeth. E come Berger, che più di chiunque altro attore viscontiano, è stato l’emanazione all’eccesso del lato più oscuro del regista, il cui unico vero oggetto di adorazione portato verso l’illimite del fanatismo, era sua madre Carla Erba, nipote di Carlo Erba, fondatore dell’omonima industria farmaceutica.
Senza dubbio il legame tra l’attore e il regista, si presta volentieri ad una storia cinematografica che narra di un grande regista pigmalione in analisi con Lacàn e un giovane arcangelo e spietato in cerca di fortuna; l’uno è stato la fortuna per l’altro e viceversa. Un melodramma lirico dai risvolti psicologici alla maniera di Visconti dove Berger è la vera incarnazione del Male, come Martin de La caduta degli dei, gelido e violento, personaggio sadico e sorridente che ricorda Stavrogin dei Demoni di Dostojevskji quando violenta una bambina ebrea e non fa nulla per impedirne il suicidio, e il giovane Torless di Musil, il personaggio di Ludwig, alter-ego di Visconti, esteta decadente, scialacquatore e folle, e al contempo la quintessenza della malinconia e della soave inquietudine propria del personaggio di Alberto nel Giardino dei Finzi-Contini: Lo so a cosa pensi… pensi che mi manca la gioia di vivere. Ma chi… chi me la può dare?