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Essere donne tra gli estremismi femministi di oggi

Solo un pensiero verticale e salato: strappate le donne dalle mani dell’estremismo femminista. Ma anche gli uomini. Poveri maschiacci occidentali di cui è sempre colpa. Per non riuscire a lavorare sotto una valanga di stress, per essere sempre meno padri e amanti focosi, per non riuscire più a stabilire rapporti di virilità – che come abbiamo visto in un recente articolo di questa dinamitarda rubrica, non è una parolaccia – alla base dell’educazione e del rapporto con i propri figli, che generano ritualità necessaria a identificare e fortificare i ruoli, le funzioni, a generare esempio, non a partorire mostri del patriarcato. Sempre colpa loro, o meglio nostra, anche mia, luridi immaturi, infanti della coscienza, violentatori preventivi, indegni di vivere il migliore dei mondi possibili, quello in cui il progresso sociale si fa, troppo spesso, estinguendo tutto ciò che si pone come alternativo all’imposto.

Mentre le donne marciscono nella premura soffocante di un sistema che promette di proteggerle, ma che andrebbero tutelate da chi vuole tutelarle, e si trasformano in marmotte delle Ande in via d’estinzione, l’uomo, vigliacco, viene superato e retrocesso. Sempre più giù, fino a trasformarsi in un innocuo portatore di pene, in ogni senso.

E trema il fondo di ogni tempo, mentre la religione laica dell’avanzare oltre ogni forma di conservazione predica l’uguaglianza, a costo di ingozzarcisi con corpose cucchiaiate infilate in gola.

Dedicando alle donne lo spazio di una riserva in cui possano muoversi apparentemente libere, come galline allevate a terra, non si realizza emancipazione, ma la costante degenerazione del caso umano. Non è premura, è soffocamento, non è maturazione di una condizione, ma polarizzazione, non è inclusione, ma esclusione, non è affronto delle fragilità, ma istituzionalizzazione forzata della diversità, senza lettura, senza tatto, senza piena comprensione dei meccanismi. Condanna: le streghe sono tornate e stavolta ad arrostire ci saranno i coglioni.

L’estremismo femminista porta a odiare le donne, così come il machismo fa con gli uomini, li spinge a una irrimediabile e infantile rigidezza che esaspera la virilità. Il femminismo stordisce la femminilità in un carnevale di aforismi battaglieri, nulla più, e arriva a essere come un amore che diventa rabbia, e poi disprezzo, per tenere incatenato a sé il partner che fu, e che forse, non tornerà mai. Per cambiarlo, per tenerci troppo, per gestirlo, ghermirlo, non lasciarlo espandere, sapendo di sbagliare, col rischio di perderlo nel mare di altre strade quando s’alza il vento forte del distacco.

Le derive del femminismo costituiscono una delle più crude contraddizioni esistenti in termini morali ed etici in questo teatro vuoto che è il nostro presente, dove ogni difetto viene allevato fino a diventare diritto, in cui il capriccio si eleva a istituzione nella generazione di una continua minoranza che nel tempo si pretende diventi maggioranza, nell’attesa di una nuova minoranza, dove ci si sfiora virtualmente sognando la California e magari un reddito di cittadinanza senza aver voglia di fare un cazzo.

Là dove il costrutto ideologico, fuori tempo come le bomboniere nella cristalliera della zia tirchia, parla di emancipazione e realizza il ghetto, poi lo arreda, nel tentativo di distruggerlo nuovamente, infine lo espande, in un loop disastroso. Anacronistica utopia che è alla base dei meccanismi di certo sinistro pensare. Il giro eterno che ha reso inutile la sinistra alla rivoluzione del cittadino, all’influenza e alla tutela delle categorie sociali, e, probabilmente, al governo della cosa pubblica.

Il linguaggio di genere, il femminicidio – guai a chiamarlo semplicemente omicidio, per altro già normalmente punito per legge – la figura femminile slacciata dall’istituzione famigliare, la maternità che fa male, il sesso da fare da sola, la redenzione di Silvia o Daniela o Margherita che appare, come Deus ex machina, nella triste materia dei soldi, come se la dignità, l’integrità e la capacità di un individuo fossero vendute un tanto al chilo, sono la trasformazione di un essere che contiene la vita, la prosegue, la nutre e la protegge, come una Madonna laica che nasce all’alba di un nuovo giorno, una bianca luce, insozzata da pretese ideologiche che trovano una piccola leva alla riflessione – di cui consiglio l’approfondimento – nelle parole di Claire Fox, intellettuale figlia della sinistra radicale e del Partito Comunista rivoluzionario inglese, intervistata, in quell’occasione, da Benedetta Frigerio per il giornale Tempi: «L’altro è sempre un potenziale nemico che lede i miei diritti, come dimostrano i ritornelli del piagnisteo moderno: “Come donne ci sentiamo offese”; “Come musulmani ci sentiamo offesi”; “Come lesbiche ci sentiamo offese”. In nome della difesa dei deboli e del diritto di tutti vige però un sistema tutt’altro che democratico».

Così, la residua forza nella donna, acquisita da conquiste che la propria caparbia natura – potente e gentile come radice di quercia e ramo di acacia – le ha garantito, rischia di svanire nella debolezza di un processo umano che si alimenta di contrapposizione e non di affermazione, malsano meccanismo che annulla ogni autodeterminazione, pessima nemica di chi ci vuole tutti sterilizzati replicanti, senza Dio, né Patria, né confine, né più connessione con le dimensioni di profondità, in nome del progresso. Si spegne come un’anziana nonnina la forza umana e sociale della donna, lentamente, nel costante abbraccio premuroso di quella Big Mother di cui Jean Yves Le Gallou teorizza.

Le Gallou, saggista francese, a partire dall’ispirazione di Jean Raspail, scrittore prolifico e lucidissimo anticipatore, che già nel 1973, nel romanzo “Il campo dei santi”, aveva immaginato l’esodo di milioni di profughi verso l’Europa e la sottomissione delle élites culturali europee. Di cosa parla Le Gallou? Di Big Brother, Big Other e Big Mother, la morsa disumanizzante:

«Big Other. Un’adorazione senza limiti per l’altro, amplificata dall’odio di sé, della propria cultura, della propria civiltà. Un’ideologia unica che ci assoggetta grazie ai metodi del Big Brother: la società di sorveglianza che conosciamo, in cui la polizia del pensiero è onnipresente. Un’ideologia unica che s’impone tanto più facilmente a individui che sono indeboliti dalla tutela di Big Mother: il principio di precauzione applicato dalla culla alla tomba».

Rischia di mutare irrimediabilmente la donna, così come il significato di femminilità, ridotto a costrutto ideologico.
E così la Grande Madre, non più archetipo della generazione, immagine soave, femmina gentile, eletta dea del fuoco della famiglia, materna procreazione e contenitrice di vita, distorce il proprio significato alla luce del presente, divenendo costola deviata e perversa della femminilità. La Big Mother, qualcosa che inietta insicurezza, frena le nostre certezze, le rende antiche e inadeguate, e non solo a livello politico, tenendoci appiccicata a sé. Essa sterilizza ogni umana necessità di esplorazione, di avventura, di far guerra per difendere ciò che è più caro e irrinunciabile, pacifica, azzera la purezza, distoglie dalla voglia di reazione, di curiosità, di scoperta.

Una motrice ben visibile che si esprime in atti politici e istituzionali di chi gestisce il villaggio globale e che si manifesta nella relativizzazione dell’esistente, dal concetto di identità sessuale biologica, alla Fede, dai genitali, fino al rapporto con i figli e con la propria terra, e così via, facendo tremare ogni identità, ogni riferimento visibile nel caos, fin nelle corde più intime, nell’abbraccio soffocante di una narrazione unica possibile se si vuole essere ritenuti degni della Civiltà.

Ed ecco un figlio che non riesce a essere adulto a causa di una pazza madre che scambiò il soffocamento per amore.
Tutto è fragile, come ginocchia piccole e insufficienti, tremolanti; lasciate senza il nutrimento del pensiero critico, della forza di reazione, stanno per cedere e spezzarsi. Così le donne senz’anima, ma con un libretto di istruzioni, sono addomesticate, per paura, per necessità, per inganno, dietro alle parole giuste da usare per loro, alle cose giuste da fare per loro, alle intenzioni giuste da nutrire per loro, così come nei sentimenti, nel sesso, nel rivolgersi semplicemente ad esse.

Siate donne come vi pare, ma siate donne, senza il bisogno di sentirvelo dire da uno scemo qualunque, come me. Che donna sia nella più grande conquista odierna, l’autodeterminazione. Che faccia rima con moralità, con immoralità, con immortalità, ma sia libera dal giogo del femminismo. Semplicemente donna come condizione naturale, di pari spessore a quella maschile, e anzi struttura dell’essere mondo, non parentesi da aprire. E alle follie di certo femminismo non date un cazzo. In tutti i sensi.

About Emanuele Ricucci

Emanuele Ricucci è nato a Roma il 23 aprile 1987. Scrive di cultura per Libero Quotidiano. Ha scritto, tra gli altri, per Il Giornale, Il Tempo e Candido, mensile di satira fondato nel 1945 da Giovannino Guareschi. È stato assistente del Sottosegretario di Stato per la Cultura, Vittorio Sgarbi, già collaboratore per la comunicazione del Gruppo Misto Camera dei deputati (componente NI- U-C!-AC). È autore di satira ed è stato caporedattore de Il Giornale OFF, diretto da Edoardo Sylos Labini, approfondimento culturale del sabato de Il Giornale, e nello staff dei collaboratori di Marcello Veneziani. Conferenziere, ha collaborato a numerose pubblicazioni. Ha studiato Scienze Politiche e scritto sette libri: Diario del Ritorno (Eclettica, Massa 2014, con prefazione di Marcello Veneziani), Il coraggio di essere ultraitaliani. Manifesto per una orgogliosa difesa dell’identità nazionale (edito da Il Giornale, Milano 2016, scritto con il giornalista di Libero e de Il Tempo Antonio Rapisarda e con il sociologo Guerino Nuccio Bovalino), La Satira è una cosa seria (edito da Il Giornale, Milano 2017. Tradotto in lingua tedesca, è in previsione l’uscita in Germania con la prefazione di Pierfrancesco Pingitore e la postfazione del prof. Francesco Alfieri. Il libro è stato apprezzato, tra gli altri, da Friedrich Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente privato di Martin Heidegger) e Torniamo Uomini. Contro chi ci vuole schiavi, per tornare sovrani di noi stessi (edito da Il Giornale, Milano 2017). Questi ultimi prodotti e distribuiti in allegato con Il Giornale. Antico Futuro. Richiami dell’origine (Edizioni Solfanelli, Chieti, 2018, scritto con Vitaldo Conte e Dalmazio Frau), Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani (Passaggio al bosco, Firenze 2020, con critica introduttiva di Vittorio Sgarbi) e Caduta Matti. Racconti e mostri della follia contemporanea (Passaggio al bosco, Firenze 2021). Tra gli altri, ha prodotto alcune pubblicazioni “tecniche” (si citano, tra gli altri, il catalogo del museo di Palazzo Doebbing, seconda stagione espositiva, “Dialoghi a Sutri. Da Tiziano a Bacon”, 2019, e “Sutri remota e assoluta. Il Parco regionale dell’Antichissima Città di Sutri, un museo naturale”, 2020). Dal 2015 scrive anche sul suo blog Contraerea su ilgiornale.it. È stato consulente per la comunicazione della Fondazione Pallavicino di Genova e direttore culturale del Centro Studi Ricerca “Il Leone” di Viterbo.

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