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Il Bene è morto

È morto il Bene.

La secchezza (spirituale) odierna è disarmante. Il Bene, come accaduto per secoli, e persino il male non hanno più “delle conseguenze trascendenti. Paradiso e inferno sono luoghi del folklore” (Piro, 2019), le identità che costruivano l’essenza più profonda degli uomini prima che diventassero prodotti di scarto del processo economico capitalistico e le comunità prima che divenissero società contemporanee, sono state accuratamente demolite attraverso un processo di demonizzazione, riferendosi alla sfera emotiva, cioè ricollegate all’errore di difenderle e praticarle ancora che, se commesso, porta a un’alienazione dalla maggioranza e a una riconsiderazione individuale immediata, che preme sulla sfera emotiva di ognuno, generando un non-riconoscimento persino all’interno dei gruppi più stretti di frequentazioni.

In tal senso, ne è riprova la crudeltà dei nostri giorni, così ambigui e drammaticamente infantili, per cui tentare di “difendere” il concetto sacro – e la definizione ancora oggi attribuita al fiume Piave lo testimonia, e non solo come impolverata evocazione patriottarda – dei confini nazionali, limitando la portata di un’immigrazione fuori controllo, significa essere, per la vulgata generale, fuori tempo e fuori luogo.

A prescindere da ogni logica giustezza del ragionamento e dalla pacatezza intellettuale con cui lo si pone. Accoppiare, poi, questa visione a una battaglia sull’integrità e sulla centralità – quantomeno come set base per il proseguimento della specie – della famiglia formata da un uomo e una donna eterosessuali, con o senza figli, è, addi­rittura, blasfemia. E lo è perché il processo di rinnovamento della liberalità, che poi trova sede nelle democrazie liberali, attinge, nella propria evoluzione, a due apparati dinamici che giungono sino a noi, che trovano fusione e successiva linfa vitale da quello che noi chiamiamo politicamente corretto.

Da un lato, l’opera di indagine filosofica dalla missione purificante ed emancipante, che, lenta, trae origine nel Novecento post-bellico, quando negli ambienti della sinistra statunitense, si genera lentamente quel politically correct che conosciamo fin troppo bene, e che nel più forte razionalismo critico trova la forza di demolire ogni metanarrazione, soffocando la pretesa di universalità di valori e princìpi portanti per il raggiungimento del Bene – e non del Giusto comune – che avevano nutrito le società legate a una tradizione, a un’identità, e generando un “politeismo dei valori” (Di Gregorio) il quale, a sua volta, è accompagnato dalla liberalità in mutazione rinchiusa in nuovi dubbi, a relativismo, se non addirittura a nichilismo. Dall’altro, il cambio di scenografia generale, meno mirato, almeno nelle sue fasi iniziali, con cui mandare in scena il progresso nel suo volto brutale: la crescita di entità di tipo sociale e politico, come il mercato, lo stato di diritto e le democrazia liberali, che hanno portato a un taglio netto tra gli individui e le strutture delle comunità tradizionali, azzerando processi etici, bandendo le precedenti forme di mo­ralità, di autodeterminazione, di crescita spirituale. Entità, oggi, spinte all’ennesima potenza dal politicamente corretto.

Da qui in poi, il processo di astrazione, di religione dell’umanità e di individualizzazione diventa inarrestabile, sebbene quest’ultimo attraversi la storia partendo da tempi più antichi, con l’idea di centralizzazione dell’uomo come ente-creatore a se stesso bastante, evocando l’Umanesimo e il Rinascimento, attraversi l’epoca della Riforma Luterana, in cui ha preso forma il “Dio personale” fino a giungere all’avvento della società borghese, sviluppatasi dall’Ot­tocento, in cui la coltivazione della libera scelta individuale si è fatta centrale nella vita sociale, quella che Riesman ha definito “società dell’autodirezione”.

Ecco, signori, l’orrida pangea globale, dove scalzi e migranti, si possa attraversare persino il mare volando, data l’astrazione del corpo e l’evanescenza dell’anima degli uomini contemporanei. Come copie di mostri alati, senza retine, spinti dal vento dei bisogni e delle necessità, senza più un peso nel tempo che vivono. Fogli di carta su cui, qualcun altro, scriverà il futuro.

Non si può demonizzare la ricerca e l’applicazione più saggia della libertà. Ma le mostruose esagerazioni partorite dai suoi eccessi, sì. Quelli devono essere condannati. Non si vuole demo­nizzare la democrazia liberale, ma i suoi eccessi vanno condannati nella misura in cui da essa trae origine un uomo individualizzato, iperpresente, oggetto animato che diventa pura astrazione. Appena decente per natura. O per affare.

Qual è la morale di tutto questo? Che la morale è cambiata: o meglio, la morale si è decomposta in favore della moralizzazione della società. Quel nuovo aggregato fatto di tante individualità urlanti e pretenziose, fragili e disorientate, che sono avvicinate in una folla sciolta nel peggior conformismo, che le unisce, come fugaci manifestazioni, quello che non attinge più a valori o ideali per condurre il cavallo della storia, ma punta alla dimensione antropologica, fin nelle profondità degli uomini e delle loro identità. Una società che non è più, da tempo, comunità ma aggregato indistinto in cui il Giusto prende il posto del Bene, in cui la sfera privata invade quella pubblica. Un luogo in cui conviene essere decenti, dalla parte del giusto per esistere, se si vuole far parte della maggioranza, del corpo sociale e non incarnare il demonio dell’indecenza che, come vedremo, è la forma di respirazione indipendente in questa cappa – come l’ha definita Marcello Veneziani – di ipocriti e silenti allineati.

About Emanuele Ricucci

Emanuele Ricucci è nato a Roma il 23 aprile 1987. Scrive di cultura per Libero Quotidiano. Ha scritto, tra gli altri, per Il Giornale, Il Tempo e Candido, mensile di satira fondato nel 1945 da Giovannino Guareschi. È stato assistente del Sottosegretario di Stato per la Cultura, Vittorio Sgarbi, già collaboratore per la comunicazione del Gruppo Misto Camera dei deputati (componente NI- U-C!-AC). È autore di satira ed è stato caporedattore de Il Giornale OFF, diretto da Edoardo Sylos Labini, approfondimento culturale del sabato de Il Giornale, e nello staff dei collaboratori di Marcello Veneziani. Conferenziere, ha collaborato a numerose pubblicazioni. Ha studiato Scienze Politiche e scritto sette libri: Diario del Ritorno (Eclettica, Massa 2014, con prefazione di Marcello Veneziani), Il coraggio di essere ultraitaliani. Manifesto per una orgogliosa difesa dell’identità nazionale (edito da Il Giornale, Milano 2016, scritto con il giornalista di Libero e de Il Tempo Antonio Rapisarda e con il sociologo Guerino Nuccio Bovalino), La Satira è una cosa seria (edito da Il Giornale, Milano 2017. Tradotto in lingua tedesca, è in previsione l’uscita in Germania con la prefazione di Pierfrancesco Pingitore e la postfazione del prof. Francesco Alfieri. Il libro è stato apprezzato, tra gli altri, da Friedrich Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente privato di Martin Heidegger) e Torniamo Uomini. Contro chi ci vuole schiavi, per tornare sovrani di noi stessi (edito da Il Giornale, Milano 2017). Questi ultimi prodotti e distribuiti in allegato con Il Giornale. Antico Futuro. Richiami dell’origine (Edizioni Solfanelli, Chieti, 2018, scritto con Vitaldo Conte e Dalmazio Frau), Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani (Passaggio al bosco, Firenze 2020, con critica introduttiva di Vittorio Sgarbi) e Caduta Matti. Racconti e mostri della follia contemporanea (Passaggio al bosco, Firenze 2021). Tra gli altri, ha prodotto alcune pubblicazioni “tecniche” (si citano, tra gli altri, il catalogo del museo di Palazzo Doebbing, seconda stagione espositiva, “Dialoghi a Sutri. Da Tiziano a Bacon”, 2019, e “Sutri remota e assoluta. Il Parco regionale dell’Antichissima Città di Sutri, un museo naturale”, 2020). Dal 2015 scrive anche sul suo blog Contraerea su ilgiornale.it. È stato consulente per la comunicazione della Fondazione Pallavicino di Genova e direttore culturale del Centro Studi Ricerca “Il Leone” di Viterbo.

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