Personalità eccentrica, Aldo Palazzeschi ha rappresentato uno dei primi motivi di rottura nella letteratura italiana di inizio novecento. Nonostante il suo nome sia legato prevalentemente ad opere riguardanti il filone futurista, non risulta esauriente incardinare Palazzeschi in un’unica categoria di appartenenza.
Nato nel 1885 esordisce come poeta nel 1905 con il libretto di versi “I cavalli bianchi”. Nel 1909, dopo la pubblicazione della terza raccolta di versi, “Poemi”, che gli procura fra l’altro l’amicizia con Marinetti, aderisce al Futurismo (di cui Marinetti è il deus-ex-machina) e, nel 1913, inizia le sue collaborazioni con <<Lacerba>>, la storica rivista di quella corrente letteraria.
Nell’estate del 1916 è richiamato alla leva militare, ma fu quasi per niente coinvolto nelle manovre militari. Si ritrovano i ricordi di quel periodo nei suoi bozzetti di “Vita militare” e nel libro autobiografico “Due imperi… mancati” (1920). Durante gli anni del fascismo, Palazzeschi non partecipa alla cultura ufficiale nonostante gli sforzi intrapresi in questo senso da Filippo Tommaso Marinetti; compie qualche viaggio a Parigi e dal 1926 collabora a <<Il Corriere della sera>>.
Dei futuristi ne ammira la lotta contro le convenzioni, contro il passato recente intriso di fumoserie, gli atteggiamenti di palese provocazione tipici del gruppo, le forme espressive che prevedono la “distruzione” della sintassi, dei tempi e dei verbi (per non parlare della punteggiatura) e propongono “le parole in libertà”.
La vetta massima che raggiunge nella sua epoca futurista è costituita da “Il codice Perelà”, nel 1911. In realtà la sua adesione al futurismo non dura tanto: la sua personalità indipendente e la sua posizione pacifista entrano in rotta di collisione con la campagna per l’intervento in guerra dei futuristi, evento che lo porta anche a riavvicinarsi a forme più tradizionali di scrittura di cui ne è esempio il sarcastico e teatrale romanzo di successo “Sorelle Materassi”.
Vive le tribolazioni studentesche degli anni sessanta sostanzialmente come un “classico rimasto in vita”, cioè da ottantenne: prende con ironico distacco gli allori che i poeti della neoavanguardia innalzano di fronte al suo nome, riconoscendolo come precursore. Scrive infatti a Sanguineti: <<Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa, saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia?>>
Palazzeschi mette in atto una versificazione giocata sul piacere, irragionevole ed impudente, della pura sonorità. Basta citare la canzonetta “E lasciatemi divertire!” della raccolta “L’incendiario” per capirlo:
“Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!”
Viene maliziosamente da pensare se questo modo di concepire il ruolo e la condizione del poeta non sia dovuto, in realtà, ad una mancaza di talento poetico, per cui l’autore si giustifica adducendo come causa dell’assenza di una “vera”( tradizionale) poetica al mutamento dei tempi e dei gusti del pubblico…
Secondo il poeta e scrittore il pubblico non è più interessato alle ragioni della poesia che perde di valore sociale ( un pò come avviene in D’Annunzio): non c’è più domanda e di conseguenza cambia l’offerta poetica che non può essere più quella tradizionale. E si fanno avanti le buffonerie, il grottesco, il divertimento, la presa in giro, il paradosso, il motto di spirito ; il poeta è un clown che sollecita gli sberleffi, smantellando l’io lirico:
“Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia”
L’animo del poeta, che viene messa a nudo, è una maschera che riduce a merce la propria arte. Come ha notato il Professor Antonio Saccone nel saggio “Qui vive/sepolto/un poeta”, Palazzeschi non è interessato a trarre dal trattamento burlesco delle opere tradizionali di pensare e di sentire indicazioni volte a rifondare le tavole della poesia e del mondo. Il senso alienato, irrigidito, svuotato di quelle opere, è mandato in frantumi e snaturato in non-sense, il richiamo al pubblico intelligente, sollecitato ad esercitare il riso dissacratore sugli stereotipi culturali, a smascherarne, le convenzionalità, distanzia sensibilmente Palazzeschi dalle argomentazioni marinettiane, in cui quella componente fondamentale che è la partecipazione del pubblico funziona nel senso dello scontro permanente.
A differenza di Corazzini che patisce un luttuoso vittimismo, Palazzeschi potrebbe essere definito un nichilista giocoso come dimostrano i seguenti versi:
“Avete dei pensieri neri?
Veniteli a svagare
dentro i cimiteri”.
Fra le sue ultime opere uscite dalla sua penna all’alba degli ottant’anni troviamo “Il buffo integrale” (1966) in cui lo stesso Italo Calvino riconosce un modello per la propria scrittura, la favola surreale “Stefanino” (1969), “Il Doge” (1967) e il romanzo “Storia di un’amicizia” (1971). Negli ultimi anni della sua vita è insignito di numerosi premi e riconoscimenti, a testimonianza del grande esempio che aveva rappresentato per intere generazioni di letterati. Muore quasi novantenne nel 1974 a Roma.
Palazzeschi non si è mai sentito completamente di appartenere ora a questa ora a quest’altra corrente. Meravigliose e molto indicative per la sua poetica, sono però queste parole che affidò alla rivista <<Lacerba>>: <<bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente…>>.
Palazzeschi in fondo è stato questo: ironico, beffardo, sognatore, disimpegnato. Futurista, ma non solo.