Tra il 1954 e il 1956 Italo Calvino si dedica alla ricerca e alla raccolta delle fiabe italiane della tradizione popolare italiana degli ultimi cento anni. Il lavoro si compirà con la pubblicazione del volume “Fiabe italiane”. Catturato dal mondo popolare fiabesco e immaginifico Calvino si dedica alla scrittura di una fiaba tutta contemporanea: la storia di Marcovaldo e della sua famiglia.
Le venti novelle che compongono l’opera si presentano difatti come delle vere e proprie favole con uno stile ed un tono che richiamano le tanto amate narrazioni orali tradizionali. Le avventure di Marcovaldo sono ambientate in una grande città imprecisata, (probabilmente il riferimento è a Torino) vivace, attiva, veloce. Questa Torino non nominata diventa lo specchio di una quotidianità mediocre che confusa con l’invenzione creativa di Calvino è il prototipo della città moderna. Attraverso le vicende di Marcovaldo emerge la sagoma nera e senza colori della città industrializzata italiana moderna, tutta fumo e ciminiere, con cartelloni pubblicitari demoniaci nella loro intermittenza, una città figlia ed erede del miracolo economico, affollata, indifferente, crudele nel suo anonimato. E Marcovaldo, protagonista dal nome buffo, a metà strada tra un cavaliere germanico e un pagliaccio da circo, si muove impacciato tra le strade intricate ed intriganti della città; Marcovaldo è un uomo sensibile, ingenuo, creativo, malinconico vuole solo evadere dalla routine asfissiante e cercare un po’di aria pulita e immergersi nella natura.
In venti novelle si susseguono situazioni esilaranti, che lasciano un sorriso per l’ingenuità dei protagonisti; eppure sotto quel riso si nasconde una sottile amarezza per i valori semplici e vitali che stanno scomparendo. Il tempo è scandito dal passaggio delle varie stagioni dell’anno, ecco il sottotitolo “Le stagioni in città”; eppure queste stagioni in città non sono riconoscibili, ingannano e illudono perché in città non c’è spazio per fermarsi a riflettere e pensare tutto scorre sotto un ordine apparente, soverchiati dalla razionalità senz’emozione.
Tutte le avventure sono in realtà disavventure dai risvolti tragicomici. Il modo di vedere e di pensare del protagonista non trova aderenza nella realtà della città, i suoi gesti e le sue intenzioni o sono fraintese o sono inascoltate e in ogni momento Marcovaldo e famiglia si ritrovano delusi, intristiti o avviliti. Eppure Calvino non cerca di essere rassicurante: “Ma esiste ancora, la Natura? Quella che egli trova è una Natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale.” La critica alla “civiltà industriale” non si accompagna all’idealizzazione della vita in campagna che, dunque, non si offre come via salvifica. La salvezza dell’uomo di città non sta nella fuga dalla città. Perché per Calvino non esistono mai strade facili. La perdita del contatto e della conoscenza della natura è ironica desolante e paradossale: «Papà – dissero i bambini, – le mucche sono come i tram? Fanno le fermate? Dov’è il capolinea delle mucche?» E così nel bellissimo capitolo “Luna e Gnac” quando Marcovaldo spiega ai suoi figli che le insegne luminose che affollano i tetti della città sono installate dalle ditte commerciali, i figli non possono far altro che chiedergli: «E la luna che ditta l’ha messa?».
Dissacranti ma mai ingiuste le riflessioni di Calvino ci coinvolgono più di quanto crediamo e la sua è fede inopportuna nel mondo, un mondo che però si fonda sull’esattezza e sulla concretezza; è questo ciò in cui crede e che gli fa dire che «è soltanto su una certa solidità prosaica che può nascere una creatività: la fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane. Se no, rimane come una cosa informe, come una marmellata, su cui non si può costruire nulla».