Antonio Tabucchi è conosciuto soprattutto per alcuni celebri romanzi come Notturno indiano e Sostiene Pereira, capolavori dello scrittore italiano. Non tutti sanno, però, che Tabucchi ha dato il meglio di se’ nella realizzazione di racconti che spesso sono stati sottovalutati. Tra le perle narrative c’è sicuramente Donna di Porto Pim. La storia è ambientata nelle isole Azzorre ed ha un finale drammatico, lacerante, di quelli che lasciano con dubbio ed amarezza, con la tristezza di chi “è già stato, è già vissuto”. Così il protagonista, Lukas Eduino, cantastorie e pescatore tradito dice:
<<E se tu ti trattieni ancora un po’ e la voce non si incrina, stasera ti canterò la melodia che segnò il destino di questa mia vita. Non so perché lo faccio, la regalo a quella donna dal collo lungo e alla forza che ha un viso di affiorare in un altro, e questo forse mi ha toccato una corda>>.
Ma più che la trama, ciò che colpisce il lettore attento è una delle tante “linee fluo” che rendono originale e inimitabile l’intera opera tabucchiana, ovvero, la saudade, il cui concetto è ripreso dallo scrittore portoghese Fernando Pessoa, sua guida e modello. Che cosa significa per lui questa parola?
“La saudade è una parola portoghese di impervia traduzione, perché è una parola-concetto, perciò viene restituita in altre lingue in maniera approssimativa”.
Tradotta in italiano come: solitudine, malinconia la saudade è una “faccenda antica”, il cui significato è vicino al concetto dantesco di disìo, lo scrittore non può che, con la voce del mentore fidato, accompagnarci nel mondo dell’altrove fisico e immaginario, in cui sperimentarla en plein air. E dove se non in Rua da Saudade, antica strada di Lisbona?
La capitale portoghese è a tutti gli effetti la città in cui gli uomini scelgono due strade per andare a morire, una è l’eliminazione fisica e quindi drastica e dolorosa, l’altra è la pratica della saudade.
Nel suo libro Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli, 2010) Tabucchi sembra spiegare oltre a fornire squarci, consigli pratici, a tratti da tour operator sui luoghi degni di nota dei più bei posti del mondo, che cosa significhi vivere, esplorare la saudade.
La parola-concetto non incontra una corrispondente traduzione italiana che le sia fedele, se si esclude la personale definizione che ne ha dato lo stesso autore: “nostalgia del futuro“. La nostalgia è un sentimento che esprime insoddisfazione, tristezza, assenza di qualcosa che possedevamo e ora abbiamo perso. Blandisce la nostalgia l’esempio del dejavù, in cui il passato bussa alla porta della mente con insistenza e sembra che ogni evento o incontro sia vissuto milioni di volte -sapori, canzoni o immagini divengono familiari fino all’estremo e sono per questo stranianti- esiste il contrario (jamais vous =ogni cosa che osservi è come se la vedessi per la prima volta, sempre eternamente estranea), la sensazione di sperimentare un avvenimento che , in questo caso la nostalgia di qualcosa che non è ancora vissuto o non si vivrà mai, difficile collocarlo nella dimensione temporale, in quanto la saudade afferma l’assenza del tempo. Quindi sia passato che futuro si ammutoliscono. Non sono distinguibili. L’unica cosa che resta è il desiderio di essere. Il tempo del soggetto si biforca, e ciò che resta è una identità franta, divisa in due parti. L’io dov’è allora? Nel passato o nel futuro? In nessuna delle due, bensì si situa nella dimensione dell’essere stato. Il passato in questo modo ritorna per riprodursi uguale a se stesso, con l’aggiunta di una sensazione di continuo malessere e nostalgia nella percezione del futuro.
Il sentimento nostalgico accompagna spesso i personaggi tabucchiani, esploratori di vie battute anche solo grazie alla propria immaginazione o ai sogni, nell’esplorazione del testo, dei frammenti di attimi colti dal viandante lungo il suo peregrinare.
Anche nel romanzo Notturno Indiano si nutre la sensazione che la saudade ci accompagni tenendoci per mano:
“Non so chi ha detto che nella pura attività del guardare c’è sempre un po’ di sadismo. Ci pensai ma non mi venne in mente, però sentii che c’era qualcosa di vero in quella frase, e così guardai con maggiore voluttà, con la perfetta sensazione di essere solo due occhi che guardavano mentre io ero altrove, senza sapere dove”.
Essere due occhi, due mani, un libro o una poesia letta in un caffè, o quello scrittore alla ricerca del suo doppio. Il passo, molto profondo e denso di spunti di riflessione, è tratto dal libro “Notturno indiano”, viaggio reale e metaforico alla ricerca di un amico portoghese, Xavier, perdutosi in India. La sensazione che pervade tutto il romanzo è quella di muoversi alla ricerca di un’alterità sofferta, di uno scavo interiore graduale, granitico e quasi doloroso. Tutto ciò cosa c’entra con la saudade? Detta il tono, l’andamento dell’opera, così come il viaggio del protagonista malinconico è la molla per conoscere la propria anima, sondare i propri lati oscuri e ombre di luce.
Così, tra i tanti personaggi umbratili, passeggeri di Notturno, spicca il medico indiano che, alla domanda del protagonista -perché un giovane come lui avrebbe studiato Medicina a Londra, per giunta con specializzazione in Cardiologia- per poi tornare al proprio paese, rivela una curiosa e obsoleta vena di malinconica rinuncia. Perché quindi tornare ad operare come cardiologo in un paese in cui i più sono affetti da lebbra, sifilide, e qualsivoglia tipologia di malattie infettive, in cui la possibilità di subire un infarto è quasi pari a zero?
“Ma a me piaceva il cuore, mi piaceva capire quel muscolo che comanda alla nostra vita, così.” Fece un gesto con la mano, aprendo e chiudendo il pugno. “Forse credevo che vi avrei scoperto qualcosa dentro.”
Che cosa cercava il medico tornato ad operare in India? Probabilmente, non cercava che desiderio di tornare a casa dopo un lungo viaggio. Un viaggio che si chiama nostalgia.