Scrittore dall’aria “mitteleuropea” e per tanti “triestino”, Giani Stuparich, nasce da padre istriano e madre triestina, il 4 Aprile del 1891. Dopo aver intrapreso gli studi classici, Stuparich frequenta l’Università di Praga e si laurea in Lettere a Firenze con una tesi su Machiavelli e la Germania.
Durante lo scoppio della guerra, nel 1915, si arruola come volontario nell’esercito italiano prendendo parte alle operazioni sul Carso e sul Monte Cengio, ottenendo la medaglia d’oro al valor militare.
Insegna nel liceo triestino Dante Alighieri fino al 1942, anni in cui comincia anche la sua attività letteraria. Arrestato dai nazisti nel 1944, viene liberato grazie alle autorità cittadine. Collabora, come giornalista, con riviste come Solaria e Pan, La Stampa e Il tempo. Muore a Roma il 7 Aprile del 1961, per cause naturali. La figura di Giani Stuparich è stata criticata aspramente dal mondo della letteratura contemporanea, poiché considerato uno scrittore che non ha mai ceduto, non si è mai abbandonato alla vita e alla scrittura.
Stuparich rifiuta tutto ciò che può essere ritenuto realtà mutevole ed instabile, realtà e verità non inquadrate in una logica o in una legge, ma con delle precise regole da seguire perché collanti per la solidarietà umana ed assolutamente necessarie. Quasi costringe, lui stesso, a vivere “come deve”. Non a caso, infatti, parlerà spesso di “norma cattolica”, filo conduttore secondo cui la rivolta violente dev’essere placata al fine di respingere il peccato e non caderci dentro. In sostanza, si sottomette, incredibilmente e dignitosamente, a ciò che la vita ci offre. Contempla le scelte ma accetta e ripiega su stesso ogni riflessione e lo fa senza tormento.
Mi piacerebbe andare a Parigi, – diceva, – e vivere alla giornata, di miseria e di utopie; già io non concluderò mai nulla nella vita.- No, – interveniva Antero, – tu sei scusabile se parli così, ma io credo che vivere sia compiere un dovere.- Ma quale, quale dovere? – ribatteva vivacemente Pasini.- Non importa se io non so preciso quale sia questo dovere, – rispondeva Antero, – basta che io senta, come ho sentito veramente molte volte in quel mese in cui ho potuto riflettere con tanta calma, che noi siamo quaggiù per lavorare e per soffrire.
Possiamo ritrovare tutto questo in Pietà del sole, opera in cui , “ipocritamente”, alcuni azzardano, si arrende a quello che gli succede, lasciandosi vivere e perdendo anche ogni forma di vitalità nella scrittura. Costringe così la sua persona ad indossare vesti che non gli appartengono o che, almeno, non sono ancora le sue.
Eppure il primo Stuparich non era questo, in quanto ci raccontava la ribellione degli umili e dei sacrificati, dei tipi umani dei quali si occupava (prevalentemente piccoli borghesi, uomini d’affari, commercianti e marinai) e l’ingiustizia degli eventi, che compiono il loro triste corso. Ma la rottura successiva appare evidente. Ora, ogni azione dell’uomo risulta vana, priva di forza, l’azione non rivoluziona nulla, non supera il ricordo di quello che è stato e solo il destino e l’accettazione lontana dai disordini e dalle rivolte possono condurre l’uomo ad una vera e definitiva liberazione. Questo tema è anche la conclusione del suo racconto L’isola, dove tutto è amara riflessione e contemplazione della morte.
I personaggi di Stuparich, anche quelli più ribelli, non sono in grado di comprendere nella loro lotta l’umanità intera, schiavi come sono di gesti che non si tramutano mai in atteggiamenti concreti. Questi “tipi umani” non arrivavano da nessuna parte, in quanto sono continuamente dominati da una volontà a loro superiore, che li sovrasta. Un disegno ben preciso in cui solo la pietà, sentimento passivo, si concede. Per tutti questi motivi, lo scrittore non è libero; la sua penna registra ognuno di questi atti rivoluzionari fallimentari e sterili. Più che essere considerato un “falso”, Stuparich è un condannato e sente tutto il peso di questa condanna, costantemente, dall’inizio alla fine, senza mai superare la prima fase tragica della sua esistenza. Tuttavia, il suo abbandono non è mai inconsapevole, poiché nel cedimento stesso riconosce tutti i meccanismi malati che hanno portato alla non realizzazione dei desideri più ambiziosi dell’essere umano. In questo modo, non fa altro che partecipare passivamente alla vita.
Fondamentali sono per lo scrittore triestino la chiarezza e la naturalezza espressiva. Possiamo averne prova in molte delle sue opere come La vedova, L’isola, Colloqui alla Guerra del 15 e Famiglia. E di questa naturalezza espressiva si serve anche per descriverci la sua commovente città, custode di tutte le sofferenze fisiche e morali della sua gente e di quegli anni.
La poesia che avvolge Trieste, nascendo dalla sua stessa bellezza naturale, non è possibile staccarla dall’energia operosa che governa la sua vita. (Stuparich)