“Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e che con calore tratta problemi di generale interesse umano”.(Motivazione del Premio Nobel per la letteratura a Grazie Deledda)
Grazia Cosima Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936) è stata vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1927. Insieme ad Elsa Morante, Virginia Woolf, solo per citarne alcune, la Deledda con la sua opera, rappresenta una tra le più importanti conseguenze dei processi di trasformazione che hanno attraversato il Novecento: un rapporto sempre più stretto delle donne con la cultura, che è stato tra i presupposti essenziali per la parità dei diritti tra i sessi.
Qual è quest’alto ideale verso cui la scrittrice sarda si protende? Nicola Tanda nel saggio La Sardegna di Canne al vento, scrive:
“L’intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio, della libertà di compiere il male ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita”.
Ancora una volta, la letteratura tende al suo fine principale: la manifestazione del vivere, in tutte le sue sfaccettature. Ma la scrittrice sarda, si avvia a tessere il filo di questa vasta, complessa, intricata rappresentazione riducendo il mondo ad un’unica, fondamentale regione: la Sardegna. L’isola sarda, che come quella procidana nella Morante, diviene emblema delle pulsazioni dell’animo umano, di quei richiami ancestrali, primordiali, arcani, istintuali che investono i protagonisti nelle sue opere.
I suoi romanzi ci portano in un mondo, che appare quasi “primitivo” per la forza delle passioni, tramutate in tragedie, che in esso si soffrono:
“L’isola è intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere”.
Ma questa, chiamiamola “sensazione”, di trovarci dinanzi ad un passato quasi “mitico” nasce dal fatto che la Deledda costringa ogni lettore a fare i conti con la parte più profonda, nascosta del proprio essere: certi impulsi, anche se repressi sono sempre presenti. E ritornano a galla, come echi leggendari e si insinuano nel nostro agire.
Dinanzi a questa “tragedia” del mondo, non c’è catarsi che regga, nessuna possibilità di distacco dalle passioni e le vicende rappresentate non hanno il fine di mostrare il “come potrebbe essere” se non si segue un regime deontologico corretto, ma sono pura raffigurazione di “ciò che è”, a prescindere dall’etica e dalla morale, in quanto l’uomo non potrà mai essere svincolato dalle sue debolezze e fragilità, qualunque sia il codice comportamentale seguito. Ed il mondo appare bello solo nel suo stesso dramma e l’uomo diviene “umano” soltanto nella sua, talvolta perversa complessità. Dice la scrittirce sarda:
“La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di un’umanità primitiva, dolente, gettata in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta”.
E la religione come si muove in questo campo minato di passioni?
Questa, non è la soluzione ai problemi dell’uomo. L’essere umano, nutrendosi o non della parola di Dio, sarà sempre soggetto così come al bene, anche al male. Quindi la religione, nella poetica della Deledda è strettamente connessa al libero arbitrio dell’uomo, in sintesi potremmo dire che è una scelta. Scegliere di vivere nel timore di Dio non significa cancellare la colpa e la vergogna, ma cercare di portarne al meglio il peso.
Resta, aleggiando nel fondo, un sentimento di pietas che permea tutti i suoi componimenti; una partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, un sentimento misericordioso che induce al perdono di una comunità di peccatori che ha sulle proprie spalle il peso del proprio destino. Uno stile, quello della scrittrice sarda, che ha posto necessariamente il problema dell’intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua. Lei stessa scrive in una sua lettera:
“Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano, ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall’italiana”
Una delle prime problematiche che deve affrontare la Deledda, dunque, è quella di far propria la lingua italiana, che lei, come sardofona, non sente sua. Operazione ancora più difficile se si tiene conto che l’autrice si accinge a narrare il proprio vissuto, il proprio universo antropologico sardo. Ne è sorto un dibattito recente sul bilinguismo, in quanto il sardo è stato riconosciuto lingua e non dialetto; dibattito che però non è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Questo però non deve far pensare che il suo linguaggio si sia improntato solamente di verismo e naturalismo, ma al contrario si è piegato al lirico e al fiabesco. Afferma Natalino Sapegno:
“Ma da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione.”
Fin dai tempi in cui scrive su riviste di moda si rende conto della distanza esistente tra la stucchevole prosa in lingua italiana e la sua esigenza di impiegare una lingua che sia più vicina alla realtà e alla società dalla quale proveniva. E così si protende alla letteratura russa e le parole delle sue opere rievocano memorie tolstojane e dostoevskiane.
L’intento della Deledda, spesso, finisce con l’approdare ad un linguaggio scarno, soprattutto in quei scritti giovanili e alcuni attribuiscono questo risultato alla paura di sbagliare, a quell’ansia che potremmo definire “da prestazione” nel dover maneggiare contemporaneamente due lingue : l’italiano ed il sardo. Secondo altri critici, invece,questo linguaggio non propriamente fluido deriva dal pensare in sardo e il tradurre in italiano. In alcuni punti delle sue opere si può chiaramente scorgere come vengano utilizzati dei veri e propri “sardismi”, soprattutto quando mancano corrispondenti in italiano. La scrittrice non ha problemi a marchiare di lingua sarda la sua poetica e tutto questo deriva da una scelta voluta e consapevole.
L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le opere sintattiche e il lessico ma anche e soprattutto le tematiche: i costumi, le immagini, i detti e i proverbi.
Dunque, la sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile ma deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità linguistiche di costruzione del racconto orale. Grazia Deledda può essere considerata una scrittrice straniera fino ai trent’anni. Ha lottato affinché il suo bilinguismo venisse riconosciuto; ha combattuto contro una critica, aspra e severa, che spesso l’ha giudicata una “scrittrice non degna”. Il suo impegno in campo letterario in realtà è poi divenuto un impegno ancor più grande in ambito umano, dove è riuscita a gettare le basi, le fondamenta per la costruzione di un ponte, quello tra due culture: la cultura italiana e quella sarda.
Queste le riflessioni stilistiche e tematiche sulla poetica di una scrittrice, definita talvolta anche sovversiva. Una grande donna prima ancora che una grande scrittrice, che ha saputo prima ancora che raccontare, soprattutto vivere, respirare, esplorare l’intera società sarda, e di riflesso, nel profondo, l’intera società umana.