Gaetano Profenna nasce a Napoli il 30 gennaio 1966. È responsabile nel settore della ristorazione presso un noto ristorante al Vomero, Napoli. La sua prima raccolta Senza maschera, pubblicata per il gruppo Albratros il filo, è un complesso viaggio emotivo tra le pieghe dolorose del suo cuore. Egli utilizza la poesia come arma contro le ingiustizie sociali, il dolore e la miseria umana. I suoi versi richiamano un mondo musicato tipicamente napoletano e rispettano a pieno le tradizioni e il folklore di un popolo a cui restituisce dignità.
La raccolta non rispetta l’ordine cronologico di composizione: si apre con una poesia del ’98 A’ maschera, che si pone come chiave di lettura di tutta la raccolta, attraversando un arco temporale che va dal 1993 al 2013. La presenza della maschera nel titolo crea un gioco di doppi e di rimandi costanti con la prima poesia della raccolta, manifesto della sua poetica. Con un forte gioco di contrapposizione legato alla presenza e all’assenza della maschera, Profenna (mutuando l’altisonante denominazione da Salvatore Bova) vuole denudarsi, liberarsi dalle oppressioni dei ricordi dolorosi, dalle ingiustizie della vita, cercando una soluzione nelle profetiche e divine risposte dell’amore.
L’autore alterna versi in italiano e napoletano, dimostrando di onorare la terra da cui proviene. È proprio l’utilizzo della lingua napoletana che dà il via libera, fa scrivere senza filtro (come direbbe l’autore senza maschera), ma solo con la voce dell’anima. Un’eco che non si dissolve nel tempo moderno malato di distrazione, ma resterà per sempre padrone dei suoi ricordi e dell’amore. Di questo si parla, dell’amore come motrice dirompente che spezza gli inganni del nostro tempo.
Il leitmotiv amoroso crea un filo rosso che in punta di piedi passa nella cruna dell’ago, ridestando i ricordi per una madre ormai scomparsa. Il dolore è una costante che sfiora ora con violenza le strade di Napoli con la poesia Napule:
Napule cara… napule mia/ che tristezze pè stì vvie/ Si turnasse Masaniello, e guardasse stà città/ addò mettess’e mmane po’ mmale ca cè stà? […] Napule cara… Napule mia… Adderizzele stì vvie […] Napule cara… Napule bella… Turnammo à cantà à tarantella!
Ora si ricongiunge al ricordo di una madre addolorata, per un figlio che invoca il suo perdono:
Ho visto quello che ogni uomo/ non vorrebbe mai vedere/ ho visto piangere una madre […] piangi ancora dolce madre ma/ Perdona chi ha colpito/ perché tu fosti perdonata/ Da chi al silenzio e al dolore/ La morte ha preferito! (Da Dolce madre)
Profenna non mette in scena solo esperienze personali, ma è in grado di oggettivarle, creando un collegamento tra testi con rimandi spesso molto forti. Da Madre natura leggiamo:
Nun à facimme murì, essa nun cè hà fatto/ niente, anzi… ce ha dat’à vita, e nun è poco.
Dolce madre e Madre natura sono indiscutibilmente collegate dalla volontà di esprimere, attraverso i dolorosi ricordi, l’universalizzazione del concetto madre ed elevarla a una visione eterea (perché impressa nella memoria) e ultraterrena, ovvero cristallizzata in un tempo eterno, ma che sia anche emblema dell’universalizzazione del dolore.