L’America è posto affascinante, pieno di possibilità, di speranze, di promesse. Ma più che un luogo l’America è sempre stata, nell’immaginario collettivo, un mito, una leggenda, una sorta di Eldorado in cui si sono rifugiati i sogni di chi ha sempre creduto in un futuro migliore. Per gli irlandesi in special modo, il Nuovo Continente, è stato un simbolo di rinascita, in cui ricominciare una nuova vita lontano dalle ristrettezze mentali, sociali ed economiche del Vecchio Continente. Lo sanno bene gli U2, forse la più grande rock band irlandese di tutti i tempi, che col mito americano hanno dovuto comunque fare i conti.
“L’America è la terra promessa per molti irlandesi. Io sono solo uno di una lunga serie di irlandesi che hanno affrontato il viaggio” (Bono Vox– Rolling Stone-1987)
Questo viaggio comincia ben tre anni prima, nel 1984, quando gli U2 pubblicano l’epocale The Unforgettable Fire che si distanzia in maniera significativa, sia dal punto di vista tematico che musicale, dai precedenti lavori della band. I pezzi si sprovincializzano passando da semplici ricordi e sensazioni dublinesi quali I Will Follow, New Year’s Day, Sunday Bloody Sunday, Fire, a brani dalle tematiche ben più ampie e profonde quali Pride (In The Name Of Love), Bad, 4Th Of July, Elvis Presley And America. Anche i suoni si fanno più precisi ed affilati passando dal post-punk degli esordi ad una miscela di country, blues e pop che denota una raggiunta maturità tecnica e compositiva. Anche lo stile vocale di Bono cambia raggiungendo un’espressività davvero notevole in grado di esprimere efficacemente sensazioni primordiali quali la rabbia, l’orgoglio, la sofferenza e l’amore.
In The Joshua Tree, gli U2 riprendono questo viaggio iniziatico fino a portarlo a compimento. Si sporcano le mani di gospel, masticano blues, giocano col rock per ottenere un suono assolutamente inedito ed innovativo. Le liriche si fanno eccezionalmente poetiche e profonde per affrontare argomenti di grandissima rilevanza che poco hanno a che fare con gli Stati Uniti in senso stretto. The Joshua Tree non parla dell’America, o meglio non solo, ma è lo sguardo irlandese degli U2 sul mondo filtrato dalle lenti del mito americano.
Si parla di droga (la struggente Running To Stand Still) di Dio e dell’amore (la tenera With Or Without You), dei dubbi della fede (l’ammaliante I Still Haven’t Found What I’m Looking For), di embargo e povertà (l’apocalittica Bullet The Blue Sky), di emarginazione (la tonante Where The Streets Have No Name), di omicidio (la spettrale Exit), di morte (la drammatica One Tree Hill), di disoccupazione (la rabbiosa Red Hill Mining Town), di natura (la contagiosa In God’s Country), dei desaparecidos (la dolente Mothers Of Desappears), di felicità (la blueseggiante Trip Through Your Wires). Su tutto l’incredibile lavoro di Dave “The Edge” Evans che, attraverso l’uso del delay, disegna liquidi ricami chitarristici ed arricchisce ogni traccia con eleganti armonie vocali. La potenza della macchina ritmica composta dal duo Adam Clayton/Larry Mullen rende ogni brano solido come una roccia mantenendone alta la potenza e la tensione.
Il resto lo fa Bono Vox grazie alla sua presenza, all’intensità delle sue interpretazioni ed alla bellezza dei suoi versi. Il risultato è un album sorprendente, bellissimo, un vero capolavoro, ma nel contempo drammatico, pieno di ombre e di domande. L’iconica copertina in bianco e nero che rappresenta il gruppo accigliato in mezzo ad un paesaggio desolato ben rappresenta la tensione nascosta all’interno del disco. Gli U2 sono cresciuti ed accantonano la spavalderia giovanile per i dubbi della maturità. Fanno i conti con se stessi e con il mondo, abbandonano la sicurezza delle patrie sponde per confrontarsi con “l’altro” affrontando un viaggio dal quale usciranno stremati, incerti ma anche ricchissimi (non solo materialmente è ovvio) e con una nuova percezione delle cose. Di li a poco pubblicheranno l’ottimo Rattle And Hum e l’altro capolavoro assoluto Achtung Baby che darà il via al loro periodo berlinese, ma nessun altro album possederà quel senso di precarietà, di inquietudine e d’incertezza presente in questo disco che fa suonare gli U2 più fragili ed umani che mai.