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Personaggi e destino nel romanzo del ‘900

“Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino”. Queste parole del critico Giacomo Debenedetti registrano acutamente i mutamenti dell’assetto del romanzo del ‘900, muovendosi in quella terra di nessuno nella quale pare essersi lacerato il ruolo storico dell’“epica della realtà” senza che vi abbia trovato spazio l’“epica dell’esistenza”.

Debenedetti ha indicato in Proust, Pirandello, Kafka, Svevo, Joyce i testimoni esemplari di una crisi dell’epica della realtà, epica che ha caratterizzato il romanzo ottocentesco con il suo naturalismo e che nel ‘900 si risolve in “rivolta dei personaggi“, non più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. I personaggi “scioperano”, desiderano l’autonomia letteraria. Tale tema, già analizzato da Debenedetti nel saggio L’avventura dell’uomo d’occidente (1946), è oggetto in Personaggi e destino, “di un ripensamento non neutrale alla luce delle risposte successivamente offerte dalla psicoanalisi e dall’esistenzialismo: la ratifica dello scarto che separa l’ottimismo progressivo di Freud dalle diverse filosofie dell’assurdo è compiuta da Debenedetti opponendo alla distruzione di ogni nesso tra personaggio e vicenda prodotta dalla morale provvisoria degli esistenzialisti” (F. Contorbia).

Nell’epica moderna quindi vi sono due specie di romanzo, la prima è rappresentata dall’epica della realtà, la seconda dall’epica dell’esistenza. Nella prima vediamo il personaggio muoversi in un mondo con il quale c’è ancora una possibilità di intesa reciproca, l’uomo è fiducioso, riesce a concepire un collegamento tra se e il mondo, riuscendo a dare delle spiegazioni ai problemi che gli si presentano. Nell’epica dell’esistenza invece il personaggio è abbandonato da tutto e ciò che gli succede è visto come qualcosa di assurdo e inspiegabile. Non c’è più un collegamento, una possibile intesa tra uomo e mondo. Ma la stessa epica della realtà, è davvero riuscita a trovare le favole giuste per i propri personaggi? Per un po’ di tempo era sembrato che l’America avesse inventato un nuovo repertorio di queste favole, ma anche quel tipo di mitologia moderna ha accusato i colpi del tempo e appare stanca, usurata. L’epica della realtà ha trovato i suoi più validi protagonisti in Zola, Vittorini, Pavese, Flaubert e ha vinto ma come le è accaduto di morire?

Sono stati tentati dei prestiti di linguaggio, innesti di vite americane, per sollecitare il punto di intesa tra romanzo nostrano e quello d’oltreoceano. Pensiamo ad esempio a Paesi tuoi di Pavese: il passo all’americana impresso ad alcuni contadini piemontesi consente che il loro muoversi risuoni come qualcosa di straniero, ma la persuasione è più nell’autore che nei personaggi. Il Vittorini della Conversazione in Sicilia ha vinto la sua partita sfogando nel surreale la carica che il linguaggio aveva addensato nel protagonista. L’epica della realtà dunque ha avuto una scossa. Ma poi ha fatto capolino il problema dell’assurdo: l‘epica della realtà e dell’esistenza possono apparentemente influenzarsi, ma sostanzialmente si escludono. Si giunge inevitabilmente a Proust, tra gli scrittori più amati da Debenedetti: ci aiuta infatti la piccola lapide in memoriam che l’autore de La Recherche ha posto all’epica della realtà in uno dei saloni della Marchesa di St. Euverte, mentre si svolge la scena dei monocoli. M. de Breauté domanda: “Come, caro, voi qui? Ma che potete aver da fare voi qui?” ad un romanziere mondano da poco installatosi all’angolo dell’occhio di un monocolo e che risponde con aria misteriosa: “Osservo”. I personaggi di Dalla parte di Swann appartengono all’ultimo ventennio del secolo scorso ma Proust scriveva nel primo ventennio del nostro ed è palese che proietta su quel passato le opinioni del suo presente. E allora cosa è accaduto in meno di quarant’anni? Quel fatto, dice il critico piemontese, che si chiama Proust, Pirandello, Joyce nelle cui opere si pronuncia una rivolta dei personaggi i quali non sono più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Il personaggio reclama i propri diritti, non vuole più essere trattato come un fenomeno di fisica; Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi immediatamente il cosiddetto“sciopero dei personaggi”. In effetti i personaggi di Proust, vivi come sono, finiscono col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere che non vale per essi, ma per il loro autore. Proust conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del ventesimo secolo.

Pirandello invece è lui ad esigere la rivolta dei personaggi, animato da profondo dolore e passione per le sue creature troppo smaniose e vive, che, pur di stare nel mondo, accettano di contraddirsi e si sa quale sentenza di patimento il grande scrittore siciliano pronunciava contro quella smania di vivere. Joyce invece, nel suo Ulisse, usa il metodo opposto: cerca di lenire il male dei personaggi che hanno perso il mondo della sicurezza, i destini a chiusura garantita, di cui godevano al tempo di Zola e di Maupassant, ed esprimono la loro sofferenza, appunto, con la rivolta. E cosa propone Joyce ai suoi personaggi? Di identificarsi psicologicamente con gli eroi dell’Odissea; sulle ermetiche pagine dell’Ulisse, questa soluzione “magica” dello scrittore irlandese può apparire complicata ma in realtà è molto semplice. Nel punto stesso che constata la crisi dei personaggi, Joyce offre anche una via di accomodamento, perlomeno provvisoria. La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa anche dai nostri contemporanei, nota Debenedetti, ogni volta che la crisi dei personaggi diventava sempre più aggrovigliata.

Una grande stagione di epica della realtà era morta di questa crisi, probabilmente, solo Zola, distinguendo un tempo dell’immaginazione e un tempo di senso della realtà, segnava i corsi e ricorsi della storia dell’epica. Tocca infatti all’immaginazione prestare i suoi servizi, inventando storie piacevoli affinché l’homo sapiens, accetti l’invasione nello spazio della propria vita, dell’homo fictus, nato da una massa di parole. Ma se il personaggio è tornato uno sconosciuto e il patto è rotto, è necessario riconciliarsi nuovamente. L’epica della realtà cerca di prolungare i suoi giorni guardando stupita le risposte dei suoi personaggi, mentre l’epica dell’esistenza approfitta della condizione di “sconosciuto” dei propri personaggi, compiendo il lavoro che toccherebbe all’immaginazione.

Vi è una sola famiglia di nuovi personaggi che consolida l’epica della propria realtà ma probabilmente Kafka è riuscito proprio per le ragioni per le quali altri hanno fallito. Egli ha obbedito con grande zelo al dettame dell’Antico Testamento: “Non ti farai simulacri del dio ignoto”. Ha avuto il coraggio di rinunciare a ogni garanzia e aiuto della realtà prestabilita; dietro la materia opaca e invisibile, il personaggio di Kafka somiglia solo all’invisibile delle proprie angoscie e conflitti. La differenza tra Kafka e i romanzieri esistenzialisti italiani, è che lui, arrivato sugli orli dove si apre lo spazio non più euclideo,, ha guardato senza soffrire di vertigini e non ha più chiesto riferimenti alle forme della buona geometria che misurava la Terra. In parole povere, e qui entra in gioca la psicoanalisi di Freud (“Tu soffri, ti incolpi e ti umilii del tuo male di vivere. Danne invece la colpa al padre; è stato lui a fabbricare il coperchio di divieti, con cui reprime il naturale, sacro ribollire dei tuoi istinti e lo ricaccia nel fondo a fare da corpo estraneo”. Non è vero che il padre se ne sia andato, è stato più maligno. Si è nascosto nell’angolo buio per continuare a farti soffrire con i suoi divieti, senza più aiutarti con la sua presenza”), è il figlio che ha perso il padre e della propria orfanezza e degli squallori della solitudine, fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato coraggio che non scende a compromessi con la nostalgia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi, a cura di F. Contorbia.

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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