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PJ Harvey, tra maschera e scrittura

Sono praticamente cresciuta circondata da ragazzi fino alla scuola secondaria, intorno agli undici anni. All’epoca sembravo più un ragazzo che una ragazza, ma ho avuto fidanzati come tutte le altre…
 
Sappiamo poco di Polly Jean Harvey (9 Ottobre 1969, Yeovil), della ragazza di periferia nata nel Dorset; molto, invece, del suo personaggio e questo proprio grazie a lei, alla sua forza dirompente e alla sua capacità di stare sul palco senza ingabbiarsi in nessun ruolo se non quello di se stessa, dandosi in pasto al pubblico. Molti amano definirla un personaggio controverso ma, andando ad indagare nel suo suo passato,  non ci giungono notizie di traumi inenarrabili o eventi di particolare rilievo, la sua infanzia è stata abbastanza serena, la sua adolescenza ribelle ma, ad ogni modo,  immersa nella musica e questo clima in cui è cresciuta l’ha sicuramente aiutata ad essere quello che è, al di là di ogni contesto delineabile. Come se Polly venisse dal nulla ed assieme a lei la sua musica. Chi è PJ Harvey? Un’immagine sfocata eppure così incisiva, così contemporanea.
Polly, sin da piccola impara a suonare il sax e ciò l’avvicina inizialmente al blues, primo vero amore, ma si lascia inevitabilmente influenzare dai generi più diversi, oltre al rock, lo stoner, poi il trip-hop e la nu-new wave senza mai perdere il file rouge che, crescendo, caratterizzerà sempre i suoi dischi.
Nel 1985 entra a far parte dei Boulogne, esperienza che sfumerà presto ma che sarà determinante per la sua formazione e la sua carriera. Lo stesso sarà per i Polekats, secondo gruppo, questa volta folk, a cui aderirà con una nuova foga. Ma sarà solo con John Parish, quando ha ormai diciotto anni, che giungerà alla svolta: entra a far parte degli Automatic Dlamini. Siamo all’inizio degli anni Novanta, anni in cui tanti sono i retaggi da trascinarsi dietro quante le novità.  E trovare una propria collocazione è molto più difficile di quanto si possa immaginare. Nasce il PJ Harvey Trio, celebre il singolo di debutto Dress. Infatti il successo fu immediato. E da questo momento in poi sempre in salita con l’uscita di singoli in cui emerge, senza ombra di dubbio, tutta la sua verve rabbiosa e malinconica. Ciò che sottolinea la Harvey nei suoi nuovi pezzi è il costante senso di inadeguatezza che accompagna la sua esistenza. E l’accompagnerà fino agli anni successivi, in cui spesso la musica si troverà ad essere ancella di alcune ideologie da cui la Harvey si distacca, preferendo raccontare il disagio profondo dell’uomo, avulso da orientamenti politici e dalle tendenze del tempo. Sul femminismo a cui fu accostata in quegli anni, infatti, dice:
Non penso mai al femminismo, voglio dire non mi sfiora mai la mente. Certamente non penso in termini di genere quando scrivo canzoni, e non ho mai avuto problemi che non potessi superare per il fatto di essere una donna. Forse non sono grata per le cose che sono avvenute prima di me. Ma non credo ci sia nessun bisogno di essere consapevoli di essere una donna in questo campo. Mi sembra solo una perdita di tempo. Non offro un supporto specifico alle donne. Offro supporto alle persone che scrivono musica, molte delle quali sono uomini. 
Restando sempre sopra le righe, si limita a denunciare ciò che accade con ironia. Arriva Rid of me prodotto da Steve Albini, che pone al centro dei testi la lotta e la divisione fra i sessi ed arriva con la stessa determinazione con cui arrivò Dry pochi anni prima (1992) ma con scelte e consapevolezze diverse. Polly adesso abbraccia il suo pubblico, provando ad interpretarne i gusti e tante sono anche le collaborazioni con artisti in grado di affiancarla sul palco seducendo nuovi ascoltatori.
To Bring You My Love, del 1995, è considerato ”il disco della maturità”, quelle delle Harvey sono vere e proprie scelte di campo, sul palco appare diversa, si traveste, stravolge il suo stile e lo impone. Sale con la maschera.
Inizia così la sua carriera da solista e la pubblicazione del singolo Down by the Water le permette di scalare le vette di tutte le classifiche. Al 1998 risale invece, l’album ritenuto da lei quello più riuscito: Is this Desire? con influenze più elettroniche, amato moltissimo dalla critica.
Per Stories from the city/Stories from the sea (2000), collabora con Thom Yorke e incide Uh Huh her (2004), quando è già una trentacinquenne in grado di suonare praticamente tutto. In questo album predominano ancora folk e blues. Più tradizionali le sonorità che sembrano appartenere a White Chalk, uscito solo due anni dopo. Con A Woman A Man Walked By, firmato assieme a John Parish e Let England Shake si conferma artista indiscussa degli ultima anni duemila. Sempre ai margini, ai confini, ma per scelta e protagonista a tutti gli effetti di una scena che resisteva ad insorgenze di ogni tipo. E che, forse, resiste tutt’ora.
La sua musica è esorcizzante? Probabilmente sì. Probabilmente un interminabile percorso di introspezione fino alla catarsi. Un percorso, potremmo dire,  che dura da più di quarant’anni.
 

About Anna Vitiello

Sono laureata in Lettere e Filosofia. Ho sempre scritto per diverse testate. Alcune mie poesie sono state pubblicate nell'antologia ''Di tanta rabbia''. Attualmente scrivo per il Wall Street International Magazine, dove mi occupo delle sezioni ''cultura'' e ''viaggi''. Vivrei viaggiando, con il cuore sempre ad Est e i miei quaderni.

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