Conforme alla gloria (Voland, 2016) è l’ultimo romanzo di Demetrio Paolin (Il mio nome è Legione, La seconda persona, Non fate troppi pettegolezzi). Paolin è stato fra i dodici finalisti per il Premio Strega di quest’anno.
Conforme alla gloria. Ma quale gloria?
Tre sono i protagonisti di questo difficile romanzo, tre le storie che si intrecciano in un arco temporale narrativo di circa quarant’anni. Le storie vengono narrate nelle prime tre parti del testo quasi fossero tre distinti racconti orbitanti intorno allo stesso tema; solo nell’ultima, opportunamente chiamata “L’insieme risulta inconoscibile”, trovano una congiunzione e una realizzazione finale.
La prima riguarda Rudolf Wollmer, che nel 1985 riceve in eredità dal padre Heinrich, gerarca nazista di stanza a Mauthausen, la villa con tutti i beni. Rudolf, che niente vuole spartire col padre (fa parte di quella generazione successiva al crollo del Terzo Reich che tanto ha combattuto per far dimenticare al mondo l’orrore del nazismo e dell’Olocausto), decide di vendere la casa ma, durante lo svuotamento, s’imbatte in un’opera a dir poco grottesca: La gloria, ossia un “dipinto” altamente simbolico che risulta essere composto di pelle umana. L’uomo, spiazzato e torturato da questo quadro, perde di vista tutto ciò che d’importante ha (la moglie, il figlio, il lavoro) e, in una scelta ultima, decide di dedicare gli anni successivi a far sapere al mondo la verità sull’opera, e indirettamente sul padre e sull’orrore della Germania nazista. La sua vita finisce in una spirale di distruzione che lo porta a perdere tutti gli affetti, e questo perché «il quadro significa che nessuno è salvo»; che davanti all’orrore del nazismo, davanti all’evidenza di ciò che l’essere umano può fare, «nessuno di noi è salvo veramente». E dunque bisogna comportarsi in modo conforme alla gloria.
La seconda storia di Conforme alla gloria si concentra su Enea Fergnani, il quale sopravvive al campo di concentramento di Mauthausen perché, preso sotto l’ala “protettrice” di Heinrich Wollmer che gli commissiona dei disegni, arriva infine a tatuare sulla pelle di una deportata proprio quella che diviene La gloria. Nel dopoguerra Enea si trasferisce a Torino e diventa tatuatore finché, negli ultimi anni della sua vita, decide di dedicarsi a una forma molto estrema di arte performativa. Il suo intento è ricordare, o meglio mostrare al mondo ciò che è successo nei campi di concentramento: e lo fa sfruttando esseri umani nelle sue opere (prima Ana, protagonista della terza storia, poi se stesso), ma deumanizzandoli, reificandoli, rendendoli mere “cose” allo stesso modo in cui nei lager le persone erano strumenti (si pensi, appunto, alla ragazza trasformata in tela). Enea vive dunque tormentato dal ricordo del campo e trova nell’arte una via di fuga che, però, non funziona completamente: la sua esistenza è comunque segnata fino alla fine dal senso di colpa di chi è sopravvissuto:
«Cosa abbiamo fatto […] per meritarci questo brandello di vita in più? Ci è semplicemente bastato sopravvivere a qualcosa di tremendo, ma poi? Abbiamo dovuto venire a patti, decidere cosa fare di questo eccesso di vita. Perché noi dovevamo morire nel freddo dell’inverno e non starci di fronte come ora. La nostra esistenza sarà il ricordo costante che gli altri sono morti e noi viviamo e guadagniamo soldi, mangiamo pranzi e cene in nome loro. Li abbiamo usurpati del loro spazio fisico, ameremo donne e uomini che loro avrebbero dovuto amare. Diventeremo simulacri vuoti e chiunque, se ci guarderà bene, vedrà il fumo della vanità».
Conforme alla gloria si conclude con la storia di Ana, all’anagrafe Loredana Di Cascio, ragazza e poi donna segnata da un unico, enorme avvenimento: l’anoressia (elemento su cui forse Paolin gioca inserendolo già nel nome: An[oressi]a; ma “ana” è anche il termine usato per definire la malattia stessa, tant’è che sul web ci si divide fra “pro ana” e “contro ana”). Ana rifiuta tutto di se stessa tranne la propria pelle, l’unica parte del suo corpo che riesce a tollerare, anzi addirittura ad amare. La sua pelle, bianca, perfetta e totalmente aderente alle sue ossa, trova poi il compimento nell’opera di Enea. Proprio come fatto alla ragazza senza nome nel campo di Mauthausen, il tatuatore sceglie Ana e la sua bianca pelle come tela per la sua creazione: il corpo di Ana (tranne il volto) viene riempito di tatuaggi. La donna diviene la tela anonima (e anche qui c’è forse un gioco di parole: An[onim]a), la “cosa” su cui si proietta l’opera d’arte. La donna trova il proprio compimento nella sua pelle; ed è proprio la sua pelle al centro dell’attenzione nella prima esibizione performativa di Enea, I’ll Be Your Mirror, in cui la donna viene mostrata appesa a un gancio, come un qualsiasi pezzo di carne. E pensa: «La pelle è bella come quella delle bestie scuoiate, e nel ricordarle appese ad asciugarsi al sole della sua terra, Ana si commuove».
Nella quarta parte le tre storie, come anticipato, si intersecano. Accade che, dopo tanti anni, Rudolf viene a sapere dell’opera di Enea sul corpo di Ana: e il quadro, il cui ricordo è sopito ma mai dimenticato, torna in scena. Dopo lunghe ricerche Rudolf entra in contatto con Ana e le rivela, in un atto di pura malvagità in cui si mostra la vittoria finale di Heinrich, l’orrore che si cela dietro il quadro e dietro la sua pelle tatuata.
Conforme alla pelle
La storia di Conforme alla gloria, iniziata nel 1985 (ma coi flashback si risale fino al 1943), si conclude nel 2009-10 con la disfatta dei tre personaggi. Dalla quarta di copertina intuiamo già che non troveremo redenzione e salvezza alcune in questo bel romanzo: non c’è via di fuga dal male, e per ben due motivi.
Il primo è che il male si presenta nella forma peggiore, ossia quando si concentra sulla spersonalizzazione degli esseri umani; quando li si abbassa al livello delle cose. Bellissimo il paragone fra la disumanizzazione dei campi di concentramento e il processo di reificazione che avviene in un animale con la marchiatura: «Rudolf lo fissa [fissa il toro] negli occhi. L’impeto di prima è svanito: c’era qualcosa e ora non c’è più. Tutta la vita dell’animale si è dissolta nel profumo acre del manto e della pelle bruciati dal marchio. Ora questa bestia non appartiene più agli esseri viventi ma alle cose».
“Perché esiste il male? Come è stato possibile l’olocausto? Come è possibile non provare pietà per i propri simili?” Queste le domande poste in Conforme alla gloria, e la risposta è sempre la stessa: tramite il processo di spersonalizzazione/strumentalizzazione. Una volta ridotto un essere umano da “persona con emozioni e affetti, con un passato vissuto e un futuro di obiettivi e sogni” a “cosa”, è facilissimo non provare empatia e, dunque, fare di quell’essere umano quel che si vuole. Perché di fatto non è più simile a noi di quanto lo sia un vestito da buttare quando si è logorato.
È proprio questo che Enea vuole insegnare al mondo con le sue opere: quel processo di spersonalizzazione avvenuto nei campi è l’elemento che maggiormente ha contraddistinto l’olocausto. Ed è proprio per questo che Enea non riesce a stabilire un contatto vero con Ana: perché essenzialmente la donna non è donna, bensì cosa (lei stessa si considera solo una tela).
Il secondo motivo è che il male non può essere dimenticato quando entra nella vita delle persone. Rudolf ed Enea (quest’ultimo risulta essere anello di congiunzione fra passato e presente, fra Germania e Italia, fra Rudolf e Ana) sono ossessionati dal male: il primo perché, pur non avendolo vissuto, vi è geneticamente e biologicamente legato; il secondo perché, avendolo vissuto ed “esportato”, vive nel senso di colpa perenne raccontato anche da autori come Primo Levi (“fisicamente” presente nel romanzo come personaggio). Il male dunque sedimenta negli animi e lì resta fino alla fine dei giorni. Nell’impossibilità dell’oblio (anche come obiettivo che si pongono i superstiti dei campi, impersonati qui da Enea Fergnani) risulta la vittoria del nazismo. Nell’impossibilità dell’oblio risulta la vittoria del male: «Dio manda il male nel mondo non perché è crudele ma perché è impotente, e perché l’uomo sappia di quale agonia è martire». E se il male sfugge persino a Dio, una teodicea è destinata a fallire.
La pelle, infine. La pelle è, insieme al male, il vero protagonista di Conforme alla gloria: la troviamo sul quadro; la troviamo sui corpi dei deportati (è tutto ciò che resta di loro prima che vengano bruciati); la troviamo sulle persone tatuate da Enea (e anche nel nome dello studio: “La pelle del latte”); la troviamo in Ana (lei è la sua pelle); ma la troviamo anche nei personaggi secondari come quando, all’inizio della storia, il figlio di Rudolf si concentra sulla pelle della sua ragazza Christine.
Perché la pelle? Perché essa è il confine visibile fra ciò che siamo e ciò che non siamo, fra il nostro dentro e il nostro fuori. La pelle è ciò che gli altri di noi vedono, il nostro più importante segno. Per Paolin la pelle diventa così essenziale da farne quasi un credo, da sostituirsi a un Dio che spesso è assente (e che di sicuro non c’era ad Auschwitz, come insegna Primo Levi):
«Niente era vero all’infuori della sua pelle.
Non avrai altra pelle all’infuori della tua pelle.
Ricordati di santificare la pelle.
Onora la tua pelle più di tuo padre e di tua madre.
Non uccidere la tua pelle».
Così ci dice Paolin in Conforme alla gloria.