Il ’68 ha fatto i figli e perfino i nipoti. È andato al potere ed è diventato conformismo di massa, anzi, sostiene Marcello Veneziani, nel libro Rovesciare il ’68, canone di vita. Ha creato luoghi comuni e nuovi pregiudizi, codici ideologici, da rispettare implacabilmente per essere ammessi al proprio tempo, come il politically correct. Ma nel 2018, cinquant’anni dopo, i sessantottini cominciano a farsi settantottenni, ed è forse giunto il momento di fare i conti con la loro opera e la loro eredità. Questo viaggio nella “piccola preistoria” degli attuali pregiudizi è compiuto con spirito omeopatico da Veneziani: un veloce insieme di schizzi e frammenti, di flash e immagini, foto di gruppo e istantanee di pensiero. Uno zapping lampeggiante animato da un triplice progetto: descrivere in breve cosa fu il ’68, narrare cosa resta e quali sono le sue rovine oggi ingombranti e, infine, capovolgere il ’68 attraverso l’uso creativo e trasgressivo della tradizione.
“Jan Palach fu l’unico sessantottino che scontò la protesta sulla propria pelle. Gli altri incendiarono il mondo pensando a se stessi, lui incendiò se stesso pensando al mondo. Entrambi amarono la libertà in modo diverso. Lui affrontò i carri, gli altri la carriera”.
“Il ’68 fu un movimento di liberazione ma non di libertà. La liberazione implica il desiderio di emanciparsi anche dalla propria identità, dall’appartenenza a una famiglia, a un luogo, a una lingua, a una religione, a una civiltà, a ogni tradizione. La libertà piena, invece, implica la responsabilità e il dovere, persegue un fine, esige il rispetto degli altri, si coniuga con la tradizione, riconosce il merito personale e la realtà. L’opposto del ’68. È libertà per l’essere e non per disfarsi dell’essere”.
“Ci vorrebbe un Sexaginta octo per rilanciare il latino cancellato dal 68 e dintorni. Riaffiora il latino in Chiesa e la mente va a Cristina Campo e Jorge Luis Borges che difesero invano l’ordo missae; e poi torna nella mente la prima infanzia. Era l’ultima messa in latino nella cattedrale del mio paese, con un’offerta di venti lire per sedere nel coro, a fianco di mio padre. Ho ancora negli occhi, nel naso e nelle orecchie, la bellezza di questo rito, il profumo dell’incenso, il mistero di quelle parole. Ti sentivi connesso alla rete del Signore. Il prete si rivolgeva a Dio e non gli dava le spalle per compiacere i fedeli come se la messa fosse un’assemblea condominiale o un comizio per cercare consensi; le parole sussurrate e antiche, il mistero di quelle formule, i canti gregoriani, promanavano il sacro e avvicinavano al Signore. La messa non è una soap opera, non è necessario capire le parole; è un rito di comunione con Dio e non un foglio d’istruzioni per montare una lavatrice. Chi dice che il mistero di quelle parole serviva per sottomettere il volgo al dominio del clero non si rende conto di quanti linguaggi iniziatici e d esoterici è infarcito il gergo corrente, dalla tecnologia alla finanza, dai misteri criptati di un computer ai labirinti fiscali. La casta sacerdotale ha lasciato l’egemonia alla casta dei tecnici, burocrati e commercialisti. Ciascuna setta ha il suo latinorum”.
In sintesi l ’68 allargò il fossato tra le generazioni. Mentre i giovani abbattevano limiti e frontiere, innalzavano un muro tra il vecchio e il nuovo e tra i vecchi, detti allora matusa, e i giovani. Irruppe la politica in ogni ambito, anche nell’intimità e nel privato. S’inneggiò alla mutazione antropologica: cambiarono le facce, i vestiti, crebbero i capelli, le barbe, i toni di voce.
Ma tutto questo è solo superficie. Si ruppe il nesso tra diritti e doveri, tra piacere e fatica, tra desideri e sacrifici. Sorse la passione trasgressiva per l’illimitato, per l’inaccessibile. Un romanticismo puerile elettrizzò i giovani, la percezione di trovarsi all’alba di un nuovo mondo, dopo il boom economico e demografico, verso una svolta radicale.
L’immaginazione andò al potere. Fu quello il ’68 prevalente. Poi ci furono esiti minori, come l’estremismo politico che poi dette vita alla violenza e si spinse fino al terrorismo. O come l’opposto, l’ecopacifismo, che si alimentava però della stessa intolleranza e dello stesso spirito utopistico. O come l’abuso di droga. Crebbe pure il femminismo.
Il ’68 fu furiosamente antiborghese e anticapitalista ma di fatto servì alla borghesia per liberarsi delle ultime eredità cristiano-perbeniste, il senso dell’ordine e del decoro, il pudore e la buone maniere. E servì al capitalismo per liberarsi delle ultime resistenze al dominio assoluto del denaro, del profitto e del consumo. Il ’68 fu una spallata al mondo di ieri, verso la modernizzazione. Che la società non andasse al passo delle trasformazioni, era vero. La scuola e l’università, la famiglia e la società erano piene di contraddizioni, ipocrisie e anacronismi; ma quelle che uscirono poi dall’onda del ’68 furono peggio. Caos e demeritocrazia.
Il 68 parricida diventò infanticida, e dopo aver sognato la società senza padri, fondò la società senza figli. Il ’68 nacque collettivista, corale, orgiastico ma finì individualista, egocentrico, narcisista. Perché fu l’espansione illimitata del soggetto.
Le trasgressioni si fecero conformismo di massa, il lessico rivoluzionario si fece catechismo bigotto e dopo aver combattuto le ipocrisie del linguaggio borghese, si instaurarono le ipocrisie del linguaggio “corretto”. Anche il 68, come il Barocco, ebbe il suo rococò.
L’effervescenza di quegli anni non produsse opere creative degne di restare, ma un permanente atteggiamento da bambino perenne, capriccioso, imbronciato e incompreso, che attribuisce alla società le colpe personali e i limiti naturali.
La società fu meno repressa ma più sboccata, più aperta alle donne ma più sfasciata in famiglia, mise al centro i giovani ma a lungo andare non si rigenerò, non adottò ricambi, si fece la più vecchia del pianeta. Alla ragione preferì l’impulso, all’ordine il caos, alla storia l’evento immediato, alla cultura l’emozione, all’etica l’estetica.
Si selezionò di meno, i capaci e i meritevoli furono messi fuori gioco, crebbe al suo posto una società edonista, irresponsabile e giuliva, anche se intimamente depressa e disperata, piena di comfort e sconfortata. Declinarono le figure di riferimento, i docenti, i genitori, i sacerdoti, i militari, le forze dell’ordine, che caddero anzi nel discredito.
Questo lasciò il ’68 in Occidente, soprattutto in Italia. Qualche passo avanti, molti passi indietro, e in basso. La liberazione promessa creò più alienazione e più frustrazioni. La società si fece più infelice, perse l’ingenuità degli anni sessanta, senza guadagnare la maturità di una vita adulta e consapevole.
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