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‘Blade Runner 2049’ di Villeneuve: il senso e il mistero della memoria in un universo disperato

Siccome ci piace pensare che ognuno dei prossimi spettatori di Blade Runner 2049 non sia un replicante, diventa arduo ipotizzare un comune punto di partenza da cui avvicinarsi a uno dei sequel più attesi della storia del cinema moderno. Anche perché il cult movie di Ridley Scott uscito nel 1982 e ambientato nel 2019 guardava molto lontano ma, com’è normale che succeda alle grandi opere fantascientifiche, accettava il rischio d’incorrere in qualche abbaglio e qualche smentita: mentre il cinquantenne canadese Denis Villeneuve, che si è assunto l’arduo compito di affrontare la sfida con l’immaginario di un paio di generazioni di spettatori, sceneggiatori e registi, sviluppa la nuova trama in uno scenario ugualmente cupo e inquietante (sicuramente debitore di Stalker di Tarkovskij), ma vistosamente allusivo di quello attuale quando affiorano traslati messaggi sul clima, l’ambiente, le multinazionali, i miliardari schiavisti.

Il primo dato da metabolizzare su Blade Runner 2049, prim’ancora di azzardare un giudizio è che la componente thrilling non è più maggioritaria (un segreto cruciale è, per esempio, svelato nel corso della missione iniziale), bensì “deglutita” stilisticamente e concettualmente da un poema in forma di incubo audiovisivo di volta in volta intimo/minimalistico oppure spettacolare e visionario, sottilmente romantico e pressoché rarefatto oppure squassato da lampi accecanti di violenza. Difficile prevedere cosa ne penseranno i nostalgici, ma è certo che Villeneuve ha lavorato con gli sceneggiatori nell’intento di non salassare il prototipo, bensì di aumentarne la presa allarmistica e attualistica.

Dopo avere sottolineato che sul meccanismo narrativo pesa molto di più l’influenza del pensiero metafisico-nichilistico dello scrittore Philip K. Dick, autore del romanzo da cui è nato tutto (Il cacciatore di androidi) e che il neo-blade runner si chiama, guarda caso, K. ed è interpretato da un aitante quanto inespressivo Ryan Gosling, si può capire –sia pure patendo confusionarie lungaggini specie nel finale e qualche monologo insopportabile del guru interpretato da Jared Leto– come l’incontro/scontro con il reaparecido Deckard, ovvero un intenso Harrison Ford circondato dagli ologrammi del suo e nostro passato, serva a focalizzare il nucleo del puzzle.

In effetti, avvalendosi della fotografia stupefacente di Roger Deakins e della grandiosa scenografia di Dennis Gassner nonché limitando il consueto e ormai sciatto ricorso al digitale, Blade Runner 2049 torna a interrogarsi sul valore e il mistero della memoria: in un universo sostanzialmente disperato, dove tra l’altro non è possibile usufruire di internet, le azioni, i sentimenti, le sensazioni, i diritti e i doveri della realtà si confondono con quelli molto più incerti e fluidi della realtà virtuale e la speranza di preservare l’identità individuale è affidata ai ricordi degli umani, ma forse anche a quelli dei loro simulacri sintetici. Una scommessa temeraria che va apprezzata benché Villeneuve riesca a vincerla solo in parte.

 

Fonte:

Blade Runner 2049

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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