I registi del Nuovo Cinema Tedesco appartengono a quella generazione che, pur non essendo stata direttamente coinvolta nella Seconda Guerra Mondiale, ha subito le conseguenze della sconfitta della Germania ed è stata costretta a sopportare l’onta degli eccidi di
massa compiuti dal Terzo Reich.
Nei loro film, come nelle dichiarazioni di poetica, si manifesta un rapporto contrastato con il passato, sia in relazione alla produzione cinematografica postbellica, legata soprattutto ai melodrammi e agli Heimatfilme, sia nei confronti dei padri, ossia quella generazione che era stata connivente con il progetto nazionalsocialista e la cui eredità aveva sgretolato l’identità tedesca provocando un diffuso e sottaciuto senso di colpa.
Il Nuovo cinema tedesco
Già nel Manifesto di Oberhausen – reso pubblico nel febbraio del 1962, durante la conferenza stampa dell’ottavo Festival del Cortometraggio – le richieste di rinnovamento dei modelli di finanziamento e degli investimenti economici si affiancano alle per un radicale mutamento dell’estetica e del linguaggio cinematografico: «Il futuro del cinema tedesco è in chi ha mostrato di parlare una nuova lingua cinematografica. […] Il vecchio cinema è morto, crediamo in quello nuovo»
Decisi a tracciare una cesura con chi li aveva preceduti per affondare le proprie radici in una tradizione che aveva in Fritz Lang e Friedrich
Wilhelm Murnau i propri maestri, capaci di instaurare un dialogo con le innovazioni narrative ed estetiche introdotte dal neorealismo e dalla Nouvelle Vague, i giovani cineasti tedeschi girano dei film in grado di problematizzare la ricostruzione della Germania e della sua identità, provando a confrontarsi con le colpe dei padri e con le macerie della guerra.
La memoria delle macerie
Sono i resti, le rovine degli edifici nazisti a Norimberga ad essere il soggetto principale di quella che viene considerata una tappa fondamentale verso l’avvento del Giovane Cinema Tedesco, il cortometraggio documentario Brutalität in Stein [1961; Brutalità nella pietra] di Alexander Kluge e Peter Schamoni.
Il montaggio audiovisivo affianca le immagini d’archivio delle macerie di Norimberga dopo i bombardamenti degli anglo-americani, alle memorie di Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, in cui sono descritte le tecniche burocratiche della soluzione finale.
A vent’anni di distanza da Brutalität in Stein, le macerie ritornano nel film di Helma Sanders-Brahms Germania, pallida madre, un affresco ispirato alle vicende familiari della regista che attraversa la storia della Germania, dall’avvento del secondo conflitto mondiale alla devastazione delle città tedesche, fino alla loro ricostruzione.
Il titolo del film coincide con il primo verso della poesia Germania scritta da Bertolt Brecht nel 1933, anno in cui il poeta e drammaturgo lascia Berlino. Nei titoli di testa, su sfondo nero, compare la poesia che viene letta dalla voce fuoricampo di Hanne Hiob, la figlia di Brecht.
Nella sua Storia naturale della distruzione, Winfried Sebald spiega l’importanza dell’operazione di recupero di una memoria delle macerie:
La ricostruzione tedesca, divenuta ormai leggendaria e da un certo punto di vista davvero ammirevole, equivalse per la Germania – dopo le devastazioni operate dai nemici durante la guerra – a una seconda liquidazione, per tappe successive, della sua storia precedente: infatti, con il grande lavoro che essa richiese e con la nuova anonima realtà che riuscì a creare, impedì fin da principio che si volgesse lo sguardo al passato e orientando la popolazione esclusivamente verso il futuro la costrinse a tacere su quanto aveva vissuto.
Sanders-Brahms
La prospettiva aerea con cui è stata girata la gran parte delle immagini di repertorio utilizzate da Sanders-Brahms ha consentito la registrazione puntuale di quanto accaduto: il fumo e i lampi delle esplosioni, il disfacimento delle architetture urbane e dei simboli del
potere nazista a Berlino, il brulicare della vita tra le rovine.
Tracce di distruzione
Mentre nei confronti del nazismo e dello sterminio degli ebrei il Nuovo Cinema Tedesco ha lavorato “intempestivamente”, mostrando
le tracce della distruzione o sottolineandone l’assenza, con il dilagare del terrorismo il cinema diventa uno degli strumenti di denuncia e riflessione sulla violenza diffusa, sull’imperversare della paura e, al contempo, sull’applicazione e l’accettazione da parte del corpo sociale di
leggi che limitano la libertà individuale e ledono i principi democratici.
Film come Die verlorene Ehre der Katharina Blum (1975; Il caso Katharina Blum) di Volker Schlöndorff e di Margarethe von Trotta – alla prima prova da regista – e Die dritte Generation (1979; La terza generazione) di Rainer Werner Fassbinder hanno saputo raccontare il clima di terrore diffuso – intriso di ironia nel caso del film di Fassbinder – e la “caccia alle streghe” scatenatasi contro i presunti sostenitori del movimento.
Margarethe von Trotta
Ma è attraverso il film collettivo Deutschland im Herbst (1978; Germania in autunno) che i fatti di cronaca dell’autunno del
1977 (il sequestro e l’uccisione dell’ex-ufficiale delle SS e capo della confindustria tedesca Hanns-Martin Schleyer, il dirottamento del Boeing della Lufthansa “Landshut” a Mogadiscio, la successiva liberazione degli ostaggi e, infine, la morte nel carcere di Stammheim) entrano in risonanza con i crimini nazisti, producendo sfasature tra il tempo della storia e quello della memoria e mostrando come il passato possa essere compreso a partire da una sua rielaborazione – che immancabilmente è anche un atto di selezione – nel presente.
A questo proposito, è emblematico l’episodio diretto da Fassbinder e nel quale egli stesso è il protagonista. Girato all’interno di un appartamento, l’episodio narra il difficile confronto con il compagno Armin Meier e i litigi scatenati dalle differenti interpretazioni dell’attualità.
Anni di piombo
Fondato sul rapporto contrastato tra due sorelle, Anni di piombo di von Trotta riprende, a soli due anni da Germania in autunno, la riflessione sui legami tra l’esercizio della violenza terroristica, le misure politiche adottate per reprimerla e il nazismo.
A differenza de Il caso Katharina Blum, in cui Schlöndorff e von Trotta scelgono di raccontare principalmente la nevrosi collettiva, alimentata dai giornali scandalistici e dai metodi di polizia, costruitasi attorno ai terroristi e ai loro presunti fiancheggiatori, Anni di piombo concede poco spazio alla messa in scena della dimensione pubblica e si concentra sul rapporto tra Juliane giornalista presso una rivista femminista, e Marianne (Barbara Sukowa), membro della RAF.
Il film racconta il percorso di Marianne, dall’ingresso nella clandestinità alla morte in carcere, ed è ispirato alla storia della terrorista Gudrun Ensslin. Ma il punto di vista dal quale sono narrate le vicende è principalmente quello di Juliane che, pur non condividendo le scelte della sorella, si ostina a cercare e a denunciare la verità sulla sua morte.
Violenza e non violenza
Le divergenze sulle modalità di attuazione del cambiamento politico – per Marianne occorre agire rapidamente e anche attraverso la violenza
mentre Juliane è convinta che la trasformazione sociale possa avvenire attraverso la sensibilizzazione e la critica non violenta – non affievoliscono il legame affettivo tra le due sorelle e, al contrario, sottolineano la profonda complementarità che le lega17
Fin dalla sequenza iniziale, il montaggio filmico è teso a scandagliare le origini e le trasformazioni di questo legame e, attraverso molteplici flashback, fa in modo che il passato emerga e irrompa nel presente.
All’operazione di rievocazione, fondata sulla raccolta e sulla conservazione del materiale del passato, Juliane affianca la comparazione
che, sottoponendo i documenti del passato ad un’ipotesi interpretativa, permette di esercitare uno sguardo critico sul presente.
I primi piani di fotografie dell’epoca nazista scorrono sullo schermo: il Führer ritratto assieme ai bambini e alle loro madri, il conferimento di medaglie alle madri più prolifiche, lunghe file di ragazze intente a compiere esercizi musicali, ginnici e militari.
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