Ed ecco, di nuovo, il Pride. Noioso come un gioco di ruolo di tre generazioni fa, variazione sul tema di guardie e ladri da giocarsi tra finti indignati e finti tolleranti. Non parliamone troppo, ché l’irrilevanza dell’evento si potrebbe riassumere nelle stesse due righe che bastano alla trama di una qualsiasi puntata di Don Matteo.
Oltre alla polvere, però, il Pride condivide con la geriatrica fiction Rai anche la teologia: lo stesso cristianesimo scemo e zuccheroso, ma rivoltato al contrario. Ovvero, una blasfemia scema e zuccherosa, senza idee, che si riduce ogni volta alle stesse ovvie trovate. Gesù coi tacchi, insomma, e altri imbarazzi del genere.
Veniamo da due secoli di straordinaria, potente blasfemia, abbiamo letto Nietzsche proclamarsi l’unico Dio e tutti gli altri dèi nei biglietti della follia, possiamo ubriacarci di Bataille fino al vomito, e anche da noi almeno un superficiale Inno a Satana o uno sforzato Totò che visse due volte si trovano. Ma Gesù coi tacchi no, e soprattutto non da giustificare col solito glitterato catechismo LGBT+.
Mettiamo le cose in chiaro: Cristo non sfilerebbe affatto al Pride, ma non perché ci sono gli omosessuali. Perché il Pride, per quando legittimo in certe sue rivendicazioni, non è una battaglia per i deboli, per gli ultimi. Ce lo raccontano ancora, ma è falso da un pezzo: tra le sex worker unico lascito formativo dell’Erasmus ad Amsterdam e le prostitute di Galilea c’è un abisso sociologico – forse non esistenziale, ma adesso stiamo facendo politica.
E c’è anche fra i gay di Stonewall e i gay di oggi. In mezzo alla spaghettata di assi di oppressione che l’intersezionalità ci offre, quello che attraversa l’orientamento sessuale nell’Occidente contemporaneo sembra sottilissimo di fronte a povertà ed esclusione sociale.
Brutalmente: fra i manifestanti del Pride c’è tanta gente che sta benissimo; gli operai che scioperavano davanti al Lidl di Biandrate, invece, stavano tutti male. Cristo crocifisso accanto a Adil Belakhdim, il sindacalista ucciso, avrebbe avuto senso. Cristo arcobaleno no.
Ma questa pretesa vittimistica assomiglia, dopotutto, a quella di certi cristiani da combattimento, stile Adinolfi, che di mestiere annunciano la fine dei tempi, laddove famiglia e religione stanno mutando, come sempre, in nuove forme di normalità borghese. Due squadre speculari di privilegiati mediatici intenti a scambiarsi volée di chiacchiere – ma Dio non gioca a dadi e nemmeno a tennis.
D’altra parte, non è che ci si possa indignare davvero se qualcuno deride ancora l’uomo della Croce: è un elemento fondamentale della sua narrativa, dai tempi del ladrone miscredente – la scala dei santi si sale fra gloria e scherno, scrive T.S. Eliot.
Quindi la riflessione si riduce alla perplessità: se la blasfemia non sensibilizza nessuno, non offende nessuno, non fa arte, allora a che serve? Serve, come tutto l’attivismo progressista, a vantarsi in pubblico. E basta. Qualche early millennial può ancora ricordare l’epoca in cui dichiararsi anticlericali a scuola suonava vagamente trasgressivo – atei per assenza d’opinioni in merito, invece, lo erano già tutti.
Figure bonariamente caratteristiche, letterarie alla maniera di Stefano Benni, si presentavano con la maglietta di Marilyn Manson o equivalente e ciarlavano di come la religione avesse provocato tutti i mali del mondo. Altri, invece, andavano in palestra per farsi gli addominali, altri ancora derapavano senza casco col motorino.
L’anticlericalismo, però, ha il vantaggio di valere come posizione politica prêt-à-porter, venduta in pratici kit del depensante da associazioni che hanno già pensato al posto degli iscritti, UAAR su tutte.
Insomma, quando c’è da scegliere un mulino contro cui sprecare la propria esistenza, la Chiesa è un’opzione invitante. Innanzitutto perché concettualmente, alla buona, è nemica della scienza (falso), e la scienza piace alla gente che piace.
Poi perché sembra un’istituzione potente, se si ignora l’ininterrotto tracollo dal Rinascimento in poi. Quel relativo poco di potere che resta è oltremondano, ma non nel senso delle chiavi di Pietro. Piuttosto, come i dinosauri di Magrelli: “orfani del futuro, tristi animali da congedo, belve della malinconia”.
La struggente dolcezza di questa lunga estinzione dovrebbe emergere molto più che i lagnosi dibattiti sull’IMU e le scuole paritarie: ma i progressisti, si sa, non hanno senso estetico. In effetti, quando Fedez chiede di abolire il Concordato non si tratta tanto di una persona stupida che esprime un’opinione stupida, quanto di una cosa brutta perché ammuffita: fa un po’ schifo e un po’ ridere questo anticlericalismo coi baffi a manubrio, pre-breccia di Porta Pia, è fastidiosa questa tendenza a invocare lo stato laico come soluzione, quando invece è l’inizio di un problema fondamentale.
Il problema della teologia politica, misteriosamente perso per strada: “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, dice Carl Schmitt.
Facciamola breve, però: l’intervento della Chiesa è stato legittimo e inutile, ugualmente legittime – effetti collaterali della libertà di espressione – e inutili le fanfare di tutti questi bersaglieri in ritardo.
Dunque non ci arrischiamo a rispondere alle domande complesse che emergono, quali per esempio: può uno stato essere davvero laico, senza fondare il potere sovrano sulla metamorfosi del sacro? No; oppure: il ddl Zan andrebbe approvato? Nemmeno.
Sul fondo del Pride, la questione è un’altra: bestemmiare, oggi, non serve a niente come non serve a niente pregare, credenti a parti ovviamente. Ecco i due fuochi nell’ellisse del nichilismo: la morte dell’uomo e la morte di Dio.
Ma tanti supergiovani opinionisti non hanno ancora ammesso la fine dell’essere umano, decostruito dal post-strutturalismo, divenuto incidente della storia.
Ci credono ancora, come le vecchie vedove che parlano alla foto del marito, e fra le conseguenze del delirio c’è la feroce caccia al prete di questi giorni.
La sinistra progressista è tale solo rispetto all’età vittoriana, calendario fisso al 1901 e da lì la retorica apocalittica, che non cambia mai: i gay sono sempre a un passo dal triangolo rosa, l’Italia dalla sovversione fascista e i liberi pensatori dai processi del Santo Uffizio.
Verrebbe da dire che, se siamo ancora ridotti così, potevano risparmiarsi un secolo di fatica. Ma non è vero, perché ci sono state battaglie necessarie, una volta.
Adesso sono finite, ed è cambiato anche il concetto di battaglia politica: i gay non sono discriminati, ma il mondo moderno li inchioda all’ipervisibilità, li totemizza come animali araldici della democrazia; il razzismo è diventato l’influenza coloniale del mercato sulle culture marginali; la religione è ridotta al cratere del Cristianesimo e all’incomunicabilità con l’Islam.
Avremmo bisogno di una sinistra che non viva di rendita, se fosse possibile. Almeno, avremmo bisogno che i ribelli sbattezzati non fossero così anacronistici. Perché, ricorda Sergio Quinzio, “il nichilismo l’abbiamo già alle spalle, di fronte abbiamo il nulla”.