Il tratto di Egon Schiele, talento precoce e come spesso di dice, maledetto, morto a soli 28 anni, è asfitticamente deformato e steso tra due espressioni: il sesso e la morte. La sua malinconia è un sentimento disperato, una discesa sconfinata negli inferi e nelle viscere dell’essere umano. Schiele, in un perpetuo frammentarsi, trascina per la prima volta nella pittura, l’asprezza della carne nel sesso. Come la modernità, i corpi sono malattie distruttive e dannazioni eterne. Non è pensabile uscire dalla carne poiché è castigo senza espiazione.
Egon Schiele. Vissuto solo pochi anni, a cavallo tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900, lascia un estimabile patrimonio artistico che abbraccia trecentocinquanta dipinti e quasi tremila opere tra acquerelli e disegni. Sebbene l’inclinazione al disegno si manifesta già nei suoi primi anni di vita, l’offerta pressoché sacrificale nel nome dell’arte, si compie tra l’ala ispiratrice di Gustav Klimt e l’aderenza alla Neukunstgruppe. Schiele, che vive l’Espressionismo tedesco da austriaco, pertanto con un naturale ritardo, si rende esegeta del tramonto di fine secolo e delle macerie che tale accadimento porta con sé. Ed è proprio all’interno tra l’immutabilità di tali rovine e l’imminenza della modernità, che si incunea la sua singolare operazione sull’arte. Impresa meravigliosamente inquietante, dove l’artista è acuto latore di una consapevolezza sin troppo evidente; si vede fluire in tutta la sua angoscia davanti a un’urgenza del reale tenacemente immutabile.
Una resa incondizionata all’avvento di una modernità che ha il suo tramite silente dentro un quotidiano non più decifrabile. E quando la decriptazione si fa irraggiungibile, non resta che accomodarsi sul proprio dolore che è urto, pressione e necessità di esprimere. La patologia è connaturata nelle presunte innovazioni che il ‘900 si appresta a portare. Mutamento, che in un sovraccarico di emotività, l’artista non riesce a sopportare. Dilaniato da un archetipico senso di colpa e dall’impossibilità di ripararlo, scisso da un declino incombente e prevaricatore, Schiele riversa sulla tela un patimento che scivola ineluttabilmente anche nello sguardo e nell’emozione di chi guarda. Opere che restano incollate addosso come il più angosciante dei noir.
Egon Schiele capitola definitivamente davanti agli ornamenti di Klimt per darsi nudo, non solo metaforicamente, a una creazione artistica, che divorando, conferisce eternità. Il suo lavoro figura per la maggior parte in ritratti e autoritratti, ma il disegno incide il vuoto che abita ogni opera. Un baratro fatale nel compito di restituire la sciagura dell’esistenza. Mediante volti, corpi deformati e un sesso al limite dell’ostentazione morbosa, l’artista sottolineando anche una certa magrezza, infine malata, si fa custode e assertore dell’angoscia del suo tempo. Il corpo e il volto sono il tragico spettacolo del male dell’anima, malessere edificato sulla malattia mentale. Viaggiano all’unisono nella disperazione e nell’incapacità di guarigione. Il tempo come ciclo storico ammala i più sensibili e lascia indifferenti tutti gli altri che non riescono a percepirsi.
Attraversare il dolore e desinare con lui sulla superficie di una tela, indugiare in uno schizzo e finire in un acquerello poiché il male risulta più onesto dell’illusione. Il primo taciuto compito dell’artista è quello di guardare il mondo da un’altra prospettiva; dall’alto di un eremo o dal basso di un abisso, da un altrove sempre e comunque. Ed è precisamente da quel punto di difficile collocazione che l’artista si fa voce, grido e faro per l’umanità dormiente.
Egon Schiele, in un perpetuo frammentarsi, trascina per la prima volta nella pittura, l’asprezza della carne nel sesso. Come la modernità, i corpi sono malattie distruttive e dannazioni eterne. Non è pensabile uscire dalla carne poiché è castigo senza espiazione. I suoi dipinti, vengono ritenuti a tratti scandalosi, tanto da beccarsi una condanna per immoralità e corruzione di minorenne. Pena edificata sulla giovane età delle modelle che si succedono di volta in volta. Al cospetto dei corpi straziati di Schiele, risulta faticoso parlare di una vera e propria forma di erotismo. L’enfasi carnale si fa eros, solo nel morboso attorcigliarsi di due creature. L’erotismo è disincanto onirico quanto evocativo di una tragedia, quella del congiungimento che porta a un’inevitabile respingimento, finanche in un alone che si allunga fuori dall’opera pittorica. Anche nell’immagine carnale sopravvive un senso di isolamento che porta l’eros al thanatos.
“Tutto nella vita è morte”
Affermazione che nel tratto dell’artista di Tulln an der Donau è stile e identificazione, dentro un espressionismo macabro quanto la vita. L’immagine della donna occupa un posto di rilievo nell’arte del pittore; figura che non è comunque la Gradiva di Salvador Dalí, ma poco meno di un’antagonista di se stessa. I corpi in seni e monti di venere sono velati da un’amara malinconia; la femmina perde tutto il potere della provocazione erotica all’interno di una resa alla malattia che Egon Schiele ravvisa nella modernità. Il suo patrimonio artistico, oltremodo ricco, resta un forziere solitario e innovativo che anche all’interno di un movimento si fa isola per prendere il largo ed ergersi nell’Olimpo dell’irripetibilità. Peculiarità che anche nell’amore si fa repulsione: ma spesso nulla è più affascinante dell’orrore.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/arte/il-dardo-lento-dellorrore-la-fascinazione-di-egon-schiele/gon Schiele