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Tossicità. L’emozione ha sostituito la ragione

Toxic town.
Tossicità.
Tossicità che castra ogni libera determinazione dei rapporti.
Paroloni? Neanche troppo.
L’epoca dell’infantilismo comincia così, sostituendo la ragione con l’emozione per leggere e gestire i fatti del mondo, in uno stato di agitazione emotiva permanente in cui l’opinione autoritaria soppianta l’idea autorevole. Sembra un’insulsa – e un po’ pretestuosa – cantilena, ma in realtà è la traduzione lirica di gran parte dell’incubo psicologico che anima le nostre vite sociali. Un esempio sta nell’ideologizzazione di ogni cosa esistente, atto primo del peggior politicamente corretto.

Corre alla mente l’indescrivibile malignità con cui fu uccisa la povera Giulia Cecchettin, per il quale pochi giorni fa è stato condannato all’ergastolo Filippo Turetta. Proprio in quell’occasione, in quegli ardenti momenti, tra una miriade di esempi, ci fu il terrore nel leggere alcuni pensieri volanti, che tanto volanti non furono, tra social e chatterbox giornalistiche. Qualcosa di cui spaventarsi, poiché capaci di orientarsi su idee e input secondo cui l’omicida in questione – tralascerò ogni aggettivo per dignità – avrebbe agito semplicemente in quanto maschio, figlio scemo e attivo del patriarcato o che non si trattò di un raptus ma, tra le pieghe della lucida follia, s’insinuò cieca e pericolosa la condizione “genetica” secondo cui essere uomo non significa commettere necessariamente un femminicidio, ma che quasi tutti i portatori di pène possono pensare come un femminicida. Una sorta di possessione che magari nasce per avere credibilità verso gli occhi di altri uomini, gli stessi di cui donne, bambini, animali, Lego e Playmobil, benzinai, gelatai, astronauti, insomma, tutto l’esistente umano, subisce il controllo e la possessione.

Una vittima candida, un anno fa, ma subito lo scatto verso il buio ideologico. Rieducazione, cultura, condanna, patriarcato, maschilismo. Censura, cesura, blocco. Decenti e indecenti. Buoni e cattivi. L’orribile bulimia della polarizzazione emotiva. Lo ricorderete sicuramente: una ragazza appena morta, ma qualcuno, anziché implorare estrema giustizia, che fortunatamente in questi giorni è giunta, pensò subito di moralizzare l’esistente, sputando sentenze su tutta la generazione maschile vivente. Ovviamente bianca, eterosessuale e figlia di una “classica” famiglia italiana, come residuo borghese altamente tossico per la nuova immagine di famiglia degenerata, pardon: senza genere alcuno.

Casus belli, l’ennesimo. Mi tornavano in testa questi pensieri, purtroppo utili a dipanare un altro tipo di riflessione sul nostro tempo.
Signori: che schifo. Perché certa privata ossessione personale, confusa per alto parere culturale, dovrebbe essere legge (morale) di tutti?
Occorre solo far capire che le profondità dell’essere umano, siano esse angeliche o infernali, sono spesso imperscrutabili, per quanto vi siano gli strumenti per riconoscere la follia. Troppo spesso la morte si realizza nell’errore dei vivi. In tutte quelle volte che Giulia si sentiva minacciata dal comportamento del Turetta, così come anche la sorella ha avuto modo di confermare.

La provincializzione dell’esperienza maschile – ovvero la riduzione dell’esistenza maschile a fattaccio figlio della peggiore mentalità della provincia italiana negli anni ‘60 – operata da alcuni deliranti scriventi che, terminata l’onda mediatica con cui maturare visibilità e consenso nel grande regno della pubblica emotività, torneranno a scrivere di giardinaggio, di borse o di vacanze sulla neve, è un concepimento assurdo. L’idea secondo cui un uomo debba crescere necessariamente tosto e robusto – in chiara evocazione agli spettri di un fascismo mascolino mai sopito – pisciando sul territorio per marcarlo, incapace di ascoltare le proprie fragilità, di chiedere aiuto, di manifestarsi inferiore o inadatto rispetto a una determinata situazione, e quindi di proseguire nella personale rigidità che lo porta a involvere e quindi a uccidere, è drammaticamente pericolosa per la maturazione sociale. Chi soffia su questo fuoco ha una visione severamente distorta del reale, o, quantomeno, fusa con la personale isteria o connessa a qualche brutta vicenda trascorsa che ha generato un portentoso disturbo post traumatico da stress.

Il privato inonda il pubblico. Il fatto privato diventa pane per la maggioranza, invertendo il principio che fu di Orwell, che nel frattempo è stata azzerata nel suo ragionare criticamente. La vetrinizzazione spietata in cui ogni dimensione umana finisce nella vetrina pubblica, la life politics, cosiddetta, ovvero la terribile sensazione di osservare tutto secondo un assassinante voyeurismo e su quello fondare la propria opinione. Un nozionismo che incolla pezzi di dichiarazioni dei leader, articoli della stampa, chiacchiere fugaci in amicizia, cuciti in fretta, senza il filtro di un ragionamento sopra le cose, di un approfondimento.

La democrazia liberale è malata, così come ha notato il politologo Luigi Di Gregorio, stimatissimo amico, che su questo tema ha scritto pagine scientificamente memorabili e degne di attenzione trasversale (Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino). È malata poiché viene fagocitata dal dubbio, dalla sua stessa essenza; quel dubbio che nutre la santa libertà, quella libertà individuale alla base dei processi del governo delle nostre società. Il dubbio che una forma di libertà e tolleranza, di giustizia sia effettivamente di alta qualità tale da produrre ulteriore maturazione civile; lo stesso che, però, raggiunta una definizione di concessione individuale e sociale, prosegue nella sua opera, non si arresta, e cresce, cresce fino a ipertrofizzarsi, fino ad annientare ogni lucida razionalità, ogni valore profondo, ogni principio morale legato al Bene, nella direzione, invece, di una moralizzazione del Giusto. La stessa che fornisce, indistintamente, doveri etici e principi prêt-à-porter che possono essere impiegati in ogni parte del mondo, senza differenza, inquadrando un solo tipo di uomo universale.

La stessa moralizzazione del Giusto – quel giusto “ideologico” che non inquadra il concetto di giustizia nel più nobile senso del termine e che non tiene conto di differenze demoetnoantropologiche ma che costituisce un dogma universale – venduta come unico accesso a una degna libertà, civile e matura, realmente emancipante e che prevede che, nella gestione della cultura di massa, che l’uomo sbagli a prescindere, sia pericoloso di nascita, sia un errore di programmazione della postmodernità. Un mostro o presunto tale.

Il Giusto vuole la rieducazione di chiunque nasce con un pisello. Il Bene, che non appartiene a questo presente – se non nella trasmutazione materialistica, che dalla felicità conduce alla gratificazione istantanea, dalla libertà porta alla concessione continua – dei buoni profeti della riprogrammazione coatta, contrariamente, era già il pacchetto con cui formare un individuo degno dell’amore e del rispetto, dell’onore, certamente, senza essere un nazista duro e puro incapace di ascoltare le proprie fragilità.
Ecco la nuova decenza: quella di chi chiede scusa per essere maschio e quella di chi vuole formare, introducendo l’idea della scuola come supplemento all’educazione familiare, se non come sostituzione, che genera una nuova edificante brava persona. Una decenza rassicurante per chi la pratica, che crea riconoscimento tra i buoni, tra le fila della maggioranza, tra quelli che non costituiscono parte dell’emergenza democratica.

Da quando si è deciso di rendere sempre meno virile il maschio che la fragilità ha conquistato tutto, infestando le dimensioni
Mi ribello con tutta la mia forza a questo cesso profondo alla Trainspotting.

Se questa è libertà, se la decenza conduce a un riconoscimento generale tra i buoni, non resta che essere indecenti, quindi liberi. Libertà in che senso? Non è una costante emanazione di concessioni, ma partecipazione a se stessi, al tempo e al reale. Così da realizzare, nell’individualità, un pensiero critico e dare una forma reale all’autodeterminazione.

About Emanuele Ricucci

Emanuele Ricucci è nato a Roma il 23 aprile 1987. Scrive di cultura per Libero Quotidiano. Ha scritto, tra gli altri, per Il Giornale, Il Tempo e Candido, mensile di satira fondato nel 1945 da Giovannino Guareschi. È stato assistente del Sottosegretario di Stato per la Cultura, Vittorio Sgarbi, già collaboratore per la comunicazione del Gruppo Misto Camera dei deputati (componente NI- U-C!-AC). È autore di satira ed è stato caporedattore de Il Giornale OFF, diretto da Edoardo Sylos Labini, approfondimento culturale del sabato de Il Giornale, e nello staff dei collaboratori di Marcello Veneziani. Conferenziere, ha collaborato a numerose pubblicazioni. Ha studiato Scienze Politiche e scritto sette libri: Diario del Ritorno (Eclettica, Massa 2014, con prefazione di Marcello Veneziani), Il coraggio di essere ultraitaliani. Manifesto per una orgogliosa difesa dell’identità nazionale (edito da Il Giornale, Milano 2016, scritto con il giornalista di Libero e de Il Tempo Antonio Rapisarda e con il sociologo Guerino Nuccio Bovalino), La Satira è una cosa seria (edito da Il Giornale, Milano 2017. Tradotto in lingua tedesca, è in previsione l’uscita in Germania con la prefazione di Pierfrancesco Pingitore e la postfazione del prof. Francesco Alfieri. Il libro è stato apprezzato, tra gli altri, da Friedrich Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente privato di Martin Heidegger) e Torniamo Uomini. Contro chi ci vuole schiavi, per tornare sovrani di noi stessi (edito da Il Giornale, Milano 2017). Questi ultimi prodotti e distribuiti in allegato con Il Giornale. Antico Futuro. Richiami dell’origine (Edizioni Solfanelli, Chieti, 2018, scritto con Vitaldo Conte e Dalmazio Frau), Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani (Passaggio al bosco, Firenze 2020, con critica introduttiva di Vittorio Sgarbi) e Caduta Matti. Racconti e mostri della follia contemporanea (Passaggio al bosco, Firenze 2021). Tra gli altri, ha prodotto alcune pubblicazioni “tecniche” (si citano, tra gli altri, il catalogo del museo di Palazzo Doebbing, seconda stagione espositiva, “Dialoghi a Sutri. Da Tiziano a Bacon”, 2019, e “Sutri remota e assoluta. Il Parco regionale dell’Antichissima Città di Sutri, un museo naturale”, 2020). Dal 2015 scrive anche sul suo blog Contraerea su ilgiornale.it. È stato consulente per la comunicazione della Fondazione Pallavicino di Genova e direttore culturale del Centro Studi Ricerca “Il Leone” di Viterbo.

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