Nell’immaginario collettivo entrare in un museo o in una galleria d’arte ha significato accedere a una sorta di wunderkammer: luogo speciale dove erano esposte mirabilia, statue e quadri carichi di fascino e di bellezza. Guardare un’opera d’arte, in passato, significava entrare in empatia con essa e sottoporsi a un’esperienza estetica, ovvero a un confronto critico e intellettuale diretto con la creazione dell’artista, finalizzato ad esprimere un giudizio personale: le sculture e i dipinti potevano essere decodificati e vagliati, seppur in maniera soggettiva, dalla sensibilità dell’osservatore. Oggi questo non accade più: le opere, andando oltre i tradizionali valori dell’estetica, sono esposte nei musei e nelle gallerie di tendenza, collocate all’interno di scenografie e di allestimenti realizzati con l’intento di esaltare la loro natura meta-artistica, il loro essere intrise di iper-significati o di espressioni dal carattere puramente concettuali, e i musei di rispondere a esigenze di marketing e di show looking.
Al di là delle potenzialità offerte dai nuovi mezzi espositivi e tecnici messi a disposizione degli artisti, all’opera d’arte è venuto a mancare quel quid di magia, di fantasmagorico e di sublime che garantiva all’oggetto artistico il fascino di una certa aura. Ciò che ha mutato l’odierno approccio dello spettatore all’opera d’arte è stata una questione di natura non solo estetica ma il frutto di un processo comunicazionale e cognitivo che ha coinvolto chi la guarda e gli artisti stessi nel modo di concepire il loro lavoro creativo.
L’artista si è trasformato in filosofo, in scienziato, in antropologo, in messaggero portatore di verità assolute, ha vestito i panni del sacerdote e dello sciamano incaricato di iniziare i profani al culto dell’arte: figure dotate di potere, di visibilità e che non sfigurano rispetto al ruolo principale dell’essere Artista. Tuttavia, tali attività parallele hanno finito per inficiare la capacità creativa degli artisti e il loro essere fino in fondo visionari, senza mettere in evidenza la qualità essenziale della loro pura creazione artistica, ossia l’originalità. Questo nuovo ruolo ha fatto sì che la stessa opera d’arte, superando gli argini della figurazione e della ricerca della qualità del disegno, ha finito per diventare installazione, esibizione di gesti o di materiali, anche di scarto, prelevati dalla realtà, riattualizzati in nuove finzioni e messi accanto a oggetti culturali inclusi in contesti alternativi.
Tale sviluppo ha portato l’artista a superare i limiti imposti dalla propria natura fisica, occultando il significato e le finalità delle sue azioni artistiche. D’altro canto i visitatori di musei, di gallerie, di installazioni en plein air, sono stati costretti ad addomesticarsi e a mutare il modo di vedere l’arte per ripensarla, per lasciarsi assorbire da realtà nuove, finendo proiettati in spazi, in ambienti e creazioni liberate da qualsiasi parametro estetico tradizionale, giungendo sino a varcare la soglia dell’inutilità e dell’immateriale: in talune situazioni, l’artista è arrivato a redigere un atto notarile nel quale ritirava dalle sue creazioni qualsiasi qualità e contenuto di carattere estetico, o dichiarava di non essere più interessato ad esporre le proprie opere e di non dipingere più.
Il padre storico, l’iniziatore di questa radicale sovversione artistica è stato Marcel Duchamp che, all’inizio del Novecento, con i ready-made (e gesti) dadaisti, prelevando gli oggetti dal mondo reale e trasformandoli in opere d’arte, ha attaccato il concetto di rappresentazione artistica per introdurre una Nuova estetica vocata alla distruzione del mito della Bellezza, ma che, purtroppo, incompresa nella sua complessità, ha avvantaggiato l’avvento dell’osceno e della bruttezza in arte.
L’Arte moderna ha coltivato questa insurrezione contro il buon senso comune: nel Novecento ha riecheggiato la volontà di demolire i principi dell’arte tradizionale e prima di Duchamp, la rivolta contro il Bello è cominciata con la violenza pittorica del Cubismo, passando attraverso l’Espressionismo tedesco, snodandosi dal Futurismo al Dadaismo, dal Surrealismo all’Astrattismo, dall’Arte Povera all’Arte Concettuale, sino all’avanguardia post-moderna e post-umana. Il gesto rilevante di Duchamp di proporre al pubblico nei musei il suo orinatoio rovesciato (Fountain) o di esporre una ruota di bicicletta appoggiata a uno sgabello, ha rappresentato l’inizio di una rivoluzione che ha trasformato l’azione simbolica di rottura dell’artista in una norma, anzi nella prassi quotidiana del lavoro artistico; tant’è vero che tutte le forme d’arte e le performance che hanno fatto scandalo in passato sono diventate dei luoghi comuni, dei modelli di riferimento e gli artisti oggi hanno diluito il loro potere di scandalizzare la gente copiando le gesta precedenti incapaci di inventare qualcosa di nuovo.
Secondo un mostro sacro dell’arte moderna, Joseph Beuys, teorizzatore dell’arte sociale negli anni Settanta, tutti gli individui potevano essere artisti, senza avere la pretesa di essere stati educati all’Arte e alla emozione estetica: un concetto già espresso dal fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, il quale fu il primo a sostenere l’esigenza della fusione-sintesi della vita e dell’arte in ogni sua espressione e manifestazione. Con Marinetti prima, e con Beuys dopo, l’arte è cambiata, o meglio, nel mondo dell’arte si è andato affermando il principio per cui non è più necessario saper scolpire, dipingere e disegnare: per essere artisti occorre invece saper trasformare le proprie creazioni in cose visibili e percepibili dai sensi, e non importa a quali sensi si va incontro attraverso la loro presentazione al pubblico.
Al tempo stesso è diventato assolutamente relativo che le creazioni di un’artista siano belle o brutte: basta che assorbano l’attenzione degli osservatori, ne perturbino la mente con provocazioni fini a se stesse, e che l’opera, grazie alla manipolazione dei media, diventi uno scandalo. Persino le mostre allestite nei grandi spazi espositivi e museali, diventano l’occasione per provocare e scandalizzare, e nel caso di esposizioni come Sensation (1997) e Post-Human (2006) sono apparsi cartelli che avvisavano i visitatori che il contenuto delle mostre poteva essere disgustoso, provocare shock, nausea, confusione mentale, panico, euforia o angoscia. Con l’avvento della modernità il disgusto è entrato prepotentemente nella riflessione estetica costringendo lo spettatore a dimenticarsi la contemplazione pura e disinteressata dell’opera d’arte, privilegiando una esperienza fisica basata sull’interazione, sulla collaborazione e anzitutto su di un mescolamento di attrazione e repulsione, rifiuto e complicità.
Non esiste una classifica in arte del Brutto e delle opere considerate attualmente più disgustose, ma vale la pena ricordare che a riprova di questo (cattivo?) gusto della pretesa partecipazione e compartecipazione del pubblico alle creazioni artistiche, nel 2011 il tedesco Carsten Höller ha invitato i partecipanti ad un evento nel museo Hamburger Bahnhof a Berlino a bere l’urina di un gruppo di renne che aveva ingerito sostanze afrodisiache e allucinogene prima di osservare le sue opere esposte; mentre, restando in tema di Brutto intenzionale, lo scultore Marc Quinn ha realizzato il suo autoritratto utilizzando il proprio sangue congelato, e Chris Ofili ha presentato un sacrilego ritratto della Madonna, The Holy Virgin Mary, realizzato assemblando con la tecnica del collage sterco di elefante e immagini pornografiche; ancora, Damien Hirst continua a proporre anti-graziosi animali sezionati e conservati in formaldeide sostenendo in maniera apotropaica di voler esorcizzare in questa maniera la morte fisica, e di recente ha incapsulato persino il corpo defunto di un bancario impiegato presso la Merryl Linch intitolando l’opera Oh Shit – Oh Merda –, poi venduta all’asta per oltre due milioni di euro.
Senza dimenticare le performance trash di Paul McCarthy, le sculture porno-kitsch di Jeff Koons e le sculture-installazioni di Maurizio Cattelan che più che costringere a una reazione invitano lo spettatore ad arrendersi di fronte alla banalità e alla volgarità della provocazione (a differenza del progetto espositivo offerto dall’avveniristico Museo della Merda, realizzato a Castelbosco in provincia di Piacenza, non a caso definito dai curatori: un contemporaneo gabiNel settembre del 1957, artisti come Piero Manzoni, il padre della celebre (e malentendu) Merda d’artista, Arman, Yves Klein, Lucio Fontana e altri, nel redigere il manifesto programmatico intitolato Contro lo stile, dichiararono che ogni invenzione, creazione o performance artistica da allora rischiava di divenire oggetto di ripetizioni stereotipe a puro carattere mercantile e che era quindi urgente intraprendere una vigorosa azione anti-stilistica per un’arte che fosse sempre unica:
Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come “presenza modificante” in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze.
Gli artisti che li hanno succeduti nel panorama artistico internazionale hanno finito per non avere più idee: le loro novità, senza alcun input creativo (se non una celebrativa autoreferenzialità), non sono altro che repliche costanti di idee altrui, prive quindi di originalità e essenzialmente brutte ma idolatrate dal pubblico dimentico del fatto che – come sostiene il critico americano George Dikie – si può fare un’opera d’arte con l’orecchio di una scrofa, ma ciò non ne fa necessariamente una borsa di seta.