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I libri più visti al cinema: letteratura e cinematografia degli anni ’70

Negli anni ’70 la cinematografia e la televisione cominciano a seguire filoni eterogenei che rispecchiano l’incertezza dei tempi, data dalla tensione provocata dalla guerra fredda tra Stati Uniti e Russia, ma anche dalla crescente violenza di matrice terroristica che investe l’Italia nei così detti “anni di piombo”.

I registi avvertono la necessità di deliziare gli spettatori attraverso tematiche e opere che lascino spazio sia alla riflessione psicologica, sia alla pura forma di intrattenimento. Nel primo caso, ritorna in auge il cinema d’evasione, impregnato dell’ideologia delle contestazioni sociali legate al tempo (ricordiamo il genere musical, con “Jesus Christ Superstar” e “Hair”); per quanto riguarda l’intrattenimento, invece, si nota una nota di malinconia in tutta la produzione del tempo.

La televisione continua a sfornare nuovi sceneggiati di matrice letteraria, dei quali il più conosciuto è sicuramente “Le avventure di Pinocchio” di Luigi Comencini, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Collodi. Il teleromanzo in sei puntate racconta in modo fedele la storia del burattino divenuto bambino anche se, rispetto al testo e per ovvie scelte registiche, Pinocchio viene impersonato da un bambino vero e in poche occasioni diventa un burattino (in genere quando deve essere punito per una malefatta).

Inoltre, è inevitabile ricordare le grandi interpretazioni, in questo lavoro, di Nino Manfredi, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, attori comici che riuscirono a trasmettere la patina malinconica dell’intero romanzo, rendendo la messa in scena realistica nonostante il suo appartenere al genere fantastico.

Nello stesso tempo, ritorna l’interesse per il genere horror proponendo una serie di film che raccontano allo spettatore il genio di Edgar Allan Poe: molto apprezzata la produzione televisiva “I racconti fantastici di Edgar Allan Poe” (Daniele D’Anza, 1979) portata sullo schermo una raffinata rapsodia dei racconti dell’autore basata sulla suggestione onirica e il potere orrorifico.

Del 1974 è lo sceneggiato “Malombra” dall’omonimo romanzo di Fogazzaro, che rappresenta un’interessante sfida per la televisione, ovvero quella di rendere lo “spiritismo” che attraversa l’intero romanzo senza stravolgerlo mettendo in risalto proprio quegli elementi gotici e metapsichici che in realtà fanno da sfondo all’intera vicenda. Il risultato è una trasposizione classica, che giustifica la necessità di trovare una via di mezzo tra la fedeltà al testo e la resa televisiva nella dicitura “libero adattamento.

Se la televisione vuole spaventare, il cinema degli anni ’70 intende parlare della fervente affermazione della parità dei sessi, attraverso una vera e propria critica dell’idea mercifica del corpo della donna: a tal proposito è importante ricordare la “Trilogia” di Pasolini, che racchiude “Il Decameron” di Boccaccio, “I racconti di Canterbury” di Chaucer e “Il fiore delle mille e una notte” (trasposizione de “Le mille e una notte”), film-denuncia non solo rispetto la volgarità di certi costumi, ma anche dell’idea di sottomissione della donna ancora radicata nella società italiana. Inutile dire che il suo lavoro venne mal compreso e diede il via alle scadenti trasposizioni erotiche delle grandi produzioni di matrice letteraria.

Del 1972 è invece il primo film di una trilogia ispirata ad uno dei primi romanzi sulla mafia americana: si tratta de “Il Padrino” di Mario Puzo, portato alla ribalta da Francis Ford Coppola, del quale si ricorda l’intensa interpretazione di Marlon Brando nei panni di Don Vito Corleone, che gli valse la vittoria di un Oscar che preferì rifiutare come protesta per la situazione dei nativi americani.

Nel frattempo, in Italia, Alberto Sordi porta nelle sale italiane una brillante versione de “Il malato immaginario” di Molière, che però non ha nulla a che vedere con il testo originale, se non l’ipocondria del protagonista.

Dello stesso anno uno è anche uno dei più grandi capolavori del registra Stanley Kubrik:Arancia meccanica”, dall’omonimo romanzo distopico-fantapolitico di Anthony Burgess, che riprende la tematica orwelliana della necessità della violenta società di controllare il pensiero dell’uomo, laddove questo è solo un “meccanismo ad orologeria”, un essere alienato che può fare solo il bene o il male. Il film è molto fedele al libro, ma praticamente sconosciuto, nonostante la sua genialità, alle nuove generazioni: la prima messa in onda televisiva (non in pay per view, com’era accaduto nel 1999) infatti risale al 2007, tra l’altro in seconda serata, rompendo quel tabù che per trentacinque anni aveva tenuto lontano dal pubblico la pellicola, considerata non adatta ad un pubblico minorenne. Ma pochi ricordano “Barry Lyndon” dello stesso regista, ispirato da “Le memorie di Barry Lyndon” di Thackeray, considerato un’opera magna in fatto di estetica. Kubrik disse di tale romanzo:

“Thackeray usava l’osservatore ‘imperfetto’ – anche se sarebbe più corretto dire l’osservatore ‘disonesto’ – consentendo al pubblico di giudicare da sé la vita di Redmond Barry. Questa tecnica andava bene per il romanzo, ma non per un film, in cui hai dinanzi a te una realtà oggettiva per forza! Il narratore in prima persona avrebbe funzionato se il film fosse stato una commedia: Barry diceva il suo punto di vista, in contrasto con la realtà oggettiva delle immagini, e allora il pubblico avrebbe riso per questa contrapposizione. Ma Barry Lyndon non è una commedia.

Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte: presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico.

La pellicola non ha avuto il successo meritato, nonostante lo sforzo del regista di rendere realistici non solo i personaggi, ma anche i paesaggi, nonostante dei curiosi anacronismi rappresentati da una cartina che segna il percorso di un treno a vapore (inesistente nel Settecento) o dal riferimento al Regno del Belgio, nato solo nel 1830.

Se negli anni ’70 la trasposizione cinematografica abbraccia più filoni, vedremo come negli anni ’80 si basi essenzialmente sul giallo deduttivo, genere dei romanzi di Stephen King e de “Il nome della rosa” di Umberto Eco.

 

Valentina Nicoletti

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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