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Luchino Visconti

Luchino Visconti, gattopardo imperfetto tra neorealismo e decadentismo

Decadente, nostalgico, melodrammatico. È Luchino Visconti, maestro del cinema italiano tra neorealismo e decadentismo, autore di capolavori immortali tra Tomasi di Lampedusa e Proust

Il neorealismo di Luchino Visconti

Il cinema italiano ha ospitato grandi registi che hanno reso noto il neorealismo in tutto il mondo. Attraverso opere come Roma città aperta o Ladri di biciclette.

Raccontando un’Italia semidistrutta, ma capace di grandi speranze sociali, tra lo squallore del secondo dopoguerra. Ogni regista diede un suo contributo alla creazione di un canone neorealista, con i suoi attori presi dalla strada, i set nelle strade della città e non solo negli studi, l’adesione a principi politici come il marxismo e l’antifascismo.

Ossessione e La terra trema

A questo canone appartiene anche Luchino Visconti, regista di estrazione aristocratica, che nel 1943 dirige il primo vero film neorealista: Ossessione.

In esso si mostrano i temi del movimento di De Sica e Rossellini, dalla rottura con la correttezza del cinema dei telefoni bianchi all’attenzione per la resa dei contesti sociali. Riprendendo i temi del naturalismo francese e del verismo, stravolgendoli e attualizzandoli.

Non è un caso che La terra trema, secondo film di Visconti, finanziato dal PCI, si rifaccia ai Malavoglia di Verga, stravolgendone la sceneggiatura, introducendo il dialetto siciliano, che nell’opera letteraria era solo accennato.

Nostalgia e decadentismo

Poi, a partire dagli anni ’50-’60, il neorealismo si decompone, proiettando i suoi registi verso altri filoni. De Sica verso il cinema nazional-popolare di ieri oggi e domani, Fellini (che pur era stato neorealista a modo tutto suo) verso un cinema onirico e magico.

Visconti, che chiude i conti col neorealismo con il film Bellissima, aspra critica sociale e constatazione del fallimento degli ideali neorealisti, si cimenta in un cinema fatto di nostalgia e intimismo.

Senso

Il primo punto di rottura è Senso, tratto da una novella di Camillo Boito (fratello del più noto Arrigo), del 1954. L’opera descrive l’amore tra un ufficiale austriaco, Franz Mahler, e una nobildonna italiana, di ideali risorgimentali, sullo sfondo di una Venezia decadente durante il risorgimento.

Il film è la constatazione del risorgimento come rivoluzione tradita, della critica alla guerra, ma soprattutto la presa di coscienza del la fine di un mondo. Il mondo aristocratico e antico schiacciato dalla borghesia e dalla storia.

La grandezza di senso sta proprio nell’introduzione di temi marcatamente decadenti. La fine del mondo ottocentesco e l’avanzata della società di massa, il culto del melodramma e della bellezza, reso tramite fuori campo che creano omaggi al mondo del melodramma e del teatro.

Mostrando in ogni inquadratura riferimenti alla pittura ottocentesca, soprattutto ad Hayez, rendendo la scenografia come un perenne teatro dell’opera. Impreziosendo il film di elementi aristocratici ed estetizzanti.

Il Gattopardo

Estetizzazione del mondo aristocratico e nostalgico che è il centro di uno dei capolavori del cineasta milanese: Il gattopardo (1963), tratto dall’omonimo romanzo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Si tratta di un film che, secondo la volontà di Visconti, voleva trovare la perfetta sintesi tra Mastro Don Gesualdo di Verga e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.

Il risultato è un kolossal unico che riesce a condensare il meglio della poetica e dello stile del regista. La storia è ambientata nella Sicilia dell’ottocento a cavallo tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio del neonato regno d’Italia.

I protagonisti sono i membri di una famiglia nobile siciliana, implicata con i Borbone, che vive una vita rigida e lussuosa, affascinante e anacronistica.

Trama e contenuti del film

Rappresentante di questo mondo è il principe Salina (Burt Lancaster), nobile pessimista e disilluso, conscio della fine del dominio del mondo aristocratico meridionale che di fronte all’avanzare delle nuove generazioni, spregiudicate e tessitrici, rappresentate dal giovane Tancredi (Alain Delon), e all’ascesa della ricca borghesia, è amareggiato per un mondo che vede sgretolarsi.

Un mondo fatto di ritualità, di convenzioni sociali, di una routine immobile e fuori dal tempo. Proprio nella resa di questo contesto Visconti mostra il suo stile decadente ed estetizzante.

Le pose, le abitudini, le formalità di questo ambente vengono raccontate e approfondite immergendo lo spettatore in scenari fastosi ed affascinanti. Attraverso una cura maniacale del dettaglio, l’utilizzo frequente di campi lunghi per creare una atmosfera da melodramma. Teatrale e magnifica, ma anche immobile e decadente.

Il principe Salina

Di questa epoca finita il principe Salina è l’ultimo rappresentante, che mostra la propria incompatibilità con la spregiudicatezza e l’ambizione di Tancredi e del mondo borghese (“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”).

Che però asseconda spingendo Tancredi verso la figlia del ricco borghese don Calogero (Claudia Cardinale), interrompendo la continuazione della tradizione nobiliare.

È il vinto della storia che di fronte ad un mondo che muore verso cui sente simpatia e affetto sceglie la via del ritorno, chiudendosi pessimisticamente nella propria oasi di raffinatezza:

“Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni.

Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri?

No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero. Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui.

Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.”

Gruppo di famiglia in interno

Temi quelli del Gattopardo che verranno poi ripresi ben undici anni dopo nel 1974 con la pellicola Gruppo di famiglia in interno (1974), in cui il protagonista (Burt Lancaster), interpreta un anziano professore universitario che, ritirato dalla vita, si dedica allo studio e alla cultura in uno splendido palazzo-biblioteca.

La residenza del professore è un appartamento ricercatissimo in cui i quadri, i manoscritti antichi, i pizzi e le porcellane, creano una atmosfera sospesa e ricercata, in cui il suo protagonista si specchia e confonde, in una quiete dottissima.

Quiete turbata dall’arrivo della marchesa Brumonti, di sua figlia col compagno, e di Konrad, giovane amante dal passato extraparlamentare e una vita dissoluta.

Il film, girato solo tra le mura domestiche, racconta l’intromissione di questi personaggi nella vita del professore, allegoria dell’intromissione del mondo moderno, con cui il protagonista inizia a dialogare, finendone deluso e disgustato.

Un film allegorico

Diventando involontariamente padre di questa assurda famiglia. Famiglia in cui si inscenano le finzioni e i pregiudizi del mondo borghese degli anni 70. Colpito dalle spinte pseudorivoluzionarie del ’68, da una borghesia ancora più cinica e spregiudicata, involutasi col consumismo.

Mostrando la totale idiosincrasia dell’intellettuale con la società consumista e turbolenta. Anche il professore è un vinto, come il principe salina, è il ritratto malinconico di relitto di un mondo passato, che plasmato sulla vita solitaria e claustrofobica dell’anglista Mario Praz, mostra un lato ancora più intimista e nostalgico.

Affidandosi proustianamente alla memoria, alla letteratura, la forma fisica dei ricordi. Sentendosi fuori posto oppresso dalla presenza annientante della morte:

“C’è uno scrittore del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente, racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo, lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi, poi tutt’a un tratto sparisce e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna, in seguito le sue assenze si fanno più rare e la sua presenza più costante: è la morte”.

L’anacronismo di Luchino Visconti

In questi film Visconti mostra il suo lato più nostalgico e decadente, reazionario e anacronistico. Profondamente critico verso la borghesia (verrà infatti considerato sempre un compagno di strada del Pci) e nostalgico di un mondo che sa in rovina, oppresso dalla figura opprimente della morte.

In cui si riconosce la grande trazione decadente, un fascino aristocratico e raffinato. Cullato in quel mondo morto, reso magnifico dalla convinzione proustiana che crede che ogni paradiso è paradiso perduto.

Un gattopardo milanese che nonostante le stroncature della critica comunista, si affianca al partito, che si confronta col mondo moderno , rimanendone deluso e disgustato, ritornando all’arte. Lui, un gattopardo imperfetto.

 

Francesco Subiaco

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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