Il segreto della versatilità di un cineasta come Jonathan Demme, morto lo scorso 26 aprile a New York a causa di un tumore all’esofago di cui era affetto da tempo, sta nell’impronta decisiva della sua formazione professionale. Nato a Rockville Centre nello stato di New York il 22 febbraio 1944 e trasferitosi a Long Island in Florida con la famiglia all’età di quindici anni, sostituisce subito, infatti, allo scarso interesse per l’università la passione per il cinema e per la critica cinematografica in particolare e dopo avere terminato il servizio militare riesce ad entrare nello staff del celebre produttore Joseph E. Levine in qualità di agente pubblicitario. Facendo la spola tra New York e Londra per procacciare investimenti alla United Artists ha la fortuna d’essere presentato alla fine degli anni Sessanta al connazionale Roger Corman, creatore e gestore della mitica Factory, la più prolifica macchina da cinema indipendente mai esistita che ha allevato una nutrita serie di maestri da Coppola a Scorsese e prodotto centinaia di film commerciali, un tempo liquidati con l’etichetta della serie B o dell’”exploitation” e oggi rivalutati nel segno del gusto dell’invenzione linguistica e dell’efficacia della serialità a basso costo. Proprio il vulcanico e geniale Corman, dopo averlo utilizzato in varie mansioni, gli offrirà così la possibilità di scrivere e dirigere “Femmine in gabbia”, il film ribellistico dai risvolti voyeuristici che nel 1974 segna il suo esordio.
Sarebbe un errore considerare il triennio successivo in cui Demme dirige gli altrettanto disinibiti, violenti e all’occasione parodistici “Crazy Mama” e “Fighting Mad” una fase d’addestramento qualsiasi, perché se anche volessimo supervalutare la qualifica di “autore” oggi comunemente attribuitagli, è chiaro che essa resta inscindibile dagli elementi ricorrenti della maniera cormaniana, dalla tendenza al cinema di genere caro alle platee popolari alla curiosità per il cinema europeo sperimentale e all’intonazione antagonista dei contenuti racchiusi nelle trame. Fattori che risultano evidenti nell’ottimo giallo hitchcockiano “Il segno degli Hannan” del ’79 con Roy Scheider e Christopher Walken suggellato dal memorabile finale alle cascate del Niagara, ma anche nell’amaro apologo on the road “Una volta ho incontrato un miliardario” con un maestoso Jason Robards (’80) e soprattutto nella formidabile commedia “Qualcosa di travolgente” (’86) in cui la meravigliosa e scombinata avventuriera Melanie Griffith trascina in una folle avventura sexy-criminosa l’imbranato e conformista bancario Jeff Daniels.
Preceduti dal film-monologo dell’attore Spalding Gray “Swimming to Cambodia” che riflette sull’esperienza vissuta sul set di “Urla del silenzio” e la graffiante tragicommedia “Una vedova allegra… ma non troppo” interpretato da un’incantevole Michelle Pfeiffer, tra il ’91 e il ’93 Demme entra nell’empireo cinematografico grazie a “Il silenzio degli innocenti” e “Philadelphia”, il primo vincitore di cinque Oscar (tra cui quello alla regia) e il secondo dell’Oscar di migliore attore al protagonista Tom Hanks e quello per la migliore canzone a Springsteen per “Streets of Philadelphia”. Il timbro dell’eclettismo dell’ex allievo dell’artigiano Corman si trasforma a questo punto in pura miscela hollywoodiana, considerando che alla profonda destabilizzazione procurata allo spettatore dal congegno incentrato sul confronto psico-horror tra il cannibale pluriomicida Hannibal e la tormentata recluta dell’’FBI Clarice si allinea un classico modello di cinema civile, la lineare e un po’ scontata lezione di tolleranza contro i pregiudizi inglobata in una superproduzione da 25 milioni di dollari. Questi innegabili vertici, secondo noi, sono responsabili dell’affievolimento del suo talento di narratore di storie, come dimostra la mediocrità diffusa nelle immagini sempre di alto livello, ma purtroppo variamente difettate della filmografia che va dal ’98 al 2015 dei “Beloved” “The Manchurian Candidate”, “Rachel sta per sposarsi” o “Dove eravamo rimasti”.
In quest’ottica di regista tuttofare, nel senso peraltro nobile del termine, non è un semplice dato statistico aggiungere che già dall’84 aveva inaugurato una carriera parallela di documentarista vivamente motivato dalle passioni musicali e dagli orientamenti politici di sinistra: più che essere ormai considerato un nome di culto cinéfilo, a Demme avrebbe fatto forse più piacere essere ricordato come il regista degli schierati pamphlet “The Agronomist” e “Jimmy Carter Man from Plains”, ma soprattutto delle sognanti scorribande nelle note veicolate da “Stop Making Sense”, “Neil Young: Heart of Gold”, “Neil Young: Trunk Show”, “Justin Timberlake and The Tennessee Kids” e come ci risulta più familiare e commovente l’”Enzo Avitabile Music Life” presentato nel 2012 alla Mostra di Venezia.
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