Ancora lui? La mitografia bonapartista non prevede pause. Nel cinema di Ridley Scott, inoltre, l’immagine di “Napoleon” aleggia fin dal suo primo lungometraggio del 1977, “I duellanti”, ambientato negli anni del mandato di Primo Console. L’incontro era dunque scontato, tuttavia il regista britannico ha aspettato sino al 2020 prima di lanciarsi nell’impresa: avviato inizialmente con la 20th Century Fox, il progetto è stato abbandonato a causa del budget di circa duecento milioni di dollari che ha spinto la piattaforma streaming Apple TV+ prima a subentrare e poi a collaborare con un distributore per portare il film anche nelle sale (sui teleschermi sarà messa in onda una versione di oltre 4 ore).
Dando per scontato l’elenco di errori, alterazioni e falsificazioni che diventerà pratica da sbrigare per gli storici specialisti –a cominciare dall’eminente Luigi Mascilli Migliorini-, è doveroso ricordare che più di 100 attori (per difetto…) hanno indossato sul set il fatidico cappello a bicorno ed è facile pronosticare le dispute tra gli appassionati su quale di loro abbia retto meglio la sfida inaugurata da Albert Dieudonné nel kolossal muto diretto da Abel Gance nel 1927 (il languido Boyer di “Maria Walewska”, il carismatico Brando di “Désirée, il torvo Steiger di “Waterloo”?).
A onore del vero Scott ripete da mesi che il film non è un’opera storica e nemmeno un film biografico, ma è inevitabile valutare la credibilità di un personaggio così monumentale e universale: Phoenix è di solito straordinario, però stavolta lascia perplessi la scelta di affibbiare a Napoleon troppe personalità cangianti tra quelle del ragazzino prepotente, il genio militare, il politico megalomane e l’ossessivo consorte della spregiudicata Josephine de Beauharnais (Kirby).
Penalizzando, peraltro, con l’eccessivo rilievo dato alle zuffe della coppia quello che dovrebbe costituire il punto di forza del film ovvero le rutilanti scene di battaglia debitamente aggiornate da dettagli splatter come il corpo dell’artigliere disintegrato da un’esplosione o le truppe austriache e russe ridotte a poltiglia dalle cannonate sul lago ghiacciato. Mentre è altrettanto vero che le sontuose scenografie di Arthur Max, i costumi di Janty Yates e Dave Crossman, le immagini in widescreen del direttore della fotografia Dariusz Wolski, l’uso creativo della musica d’epoca e la colonna sonora di Martin Phipps riescono a suggerire solo un vago parallelo con l’esorbitante iconografia napoleonica al pari dell’eccentrica performance di Phoenix.
La riluttanza a riconoscere la sconfitta di qualsiasi tipo, sia essa coniugale o militare, resta la chiave più seria della caratterizzazione, ancorché la sceneggiatura di David Scarpa, frettolosa nonostante le oltre due ore e mezza di durata, si conceda uscite derisorie come quella di Napoleon che grida “Stiamo vincendo!” su un campo di battaglia disseminato dei cadaveri della sua fanteria.
Persino dopo la catastrofica disfatta di Waterloo, il nostro rimane fermo nel rifiuto dell’autocritica preferendo di gran lunga incolpare i sottoposti di non essere stati in grado di eseguire correttamente i suoi ordini. “La cosa più difficile nella vita è accettare il fallimento degli altri”: con questa battuta emergerebbe un’idea intrigante di leadership illusoria che, però, poi non viene adeguatamente sviluppata per le esigenze di un kolossal all’altezza della nostra epoca iper smaliziata.
Chiunque abbia familiarità con la storia dell’Imperatore “Due volte nella polvere, Due volte sull’altar” sa già che l’irresistibile ascesa non terminerà con l’happy end, ma anche quando arrivano alle bobine finali Scott e Phoenix continuano a tenere curiosamente il soggetto a distanza, senza chiedere mai agli spettatori la comprensione, l’adesione o la ripulsa. Una plumbea rassegnazione permea, piuttosto, l’ultimo N. dello schermo, quasi la consapevolezza che, come nella burrascosa love story con Josephine, pulsasse sempre in lui qualcosa di non corrisposto, d’incomunicabile, irrimediabile o fuori dalla sua portata. Non basterà certo a rendere il film memorabile, ma questa ‘zona grigia’ almeno ci tramanda l’ambiguità e il pathos dell’uomo che cercò di conquistare il mondo senza riuscire a dominare la disperazione intima.