I 100 metri piani sono la specialità più sublime delle Olimpiadi, la gara regina, perché tutto si gioca in un attimo, il duro allenamento e i sacrifici trovano la loro manifestazione sulla pista rossa che pare avere le sembianze della Terra Promessa.
Ma la terra promessa, la beatitudine si raggiunge proprio nel Giorno del Giudizio; lo stesso giorno, quando l’infinito e l’immortalità si concentrano in movimenti perfetti, in muscoli scintillanti.
In questo giorno psiche e turbamento si fondono nel fisico alchemico dell’atleta che ha fatto del suo corpo strumento di lavoro, perché noi siamo corpo. Il corpo modellato perché ogni microscopico muscolo è un perla rara da donare al vento, alla corsa, agli applausi, ai flash dei fotografi, alla rivoluzione delle statistiche e dei primati.
Stavolta a trionfare alle Olimpiadi, nei 100 m non è stato un americano o un jamaicano, bensì un italiano, di origine texana, dal sorriso disarmante e padre, a 26 anni di tre figli. Il suo nome è Lamont Marcell Jacobs che insieme al marchigiano Gianmarco Tamberi, 28 anni (oro nel salto in alto), hanno regalato all’Italia una grande impresa.
L’Italia che faticava a trovare l’oro ai Giochi di Tokyo è anche quella delle prime volte sorprendenti e memorabili. L’altra faccia del medagliere, nel quale gli azzurri non sono ancora alle posizioni del passato, racconta una verità finora passata sottotraccia e portata ora alla ribalta dal lampo di Marcell Jacobs, splendido campione olimpico sui 100 metri, cosa mai vista anche ai tempi di Berruti e Mennea, e di Tamberi, oro ex aequo nel salto in alto. Un’impresa mai compiuta da atleti azzurri alle Olimpiadi in una domenica del primo mese di agosto che rimarrà nella storia dello sport.
L’uomo che corre e l’uomo che si alza più alto. Il primo è una falena che si dimentica di se correndo, illuminato all’improvviso, pronto a scoppiare in un lampo, il secondo vuol sentirsi mancare la terra sotto i piedi, magari indietreggiando prima di compiere il gesto che lo renderò immortale. Perché indietreggiare è pensare prima di buttarsi, è vivere, e lo si fa per saltare meglio.
Questi cavalieri dell’atletica mentre saltano e mentre corrono probabilmente hanno già vinto perché si avventurano laddove il cielo e la terra non sono divisi. C’è stata divisione di oro invece, per il salto in alto, due atleti reduci dallo stesso infortunio che hanno entrambi meritato di salire sul gradino più alto del podio e deciso di non andare allo spareggio, ma di abbracciarsi e condividere la medaglia più importante.
Che non ci sia qualcosa di zen e apocalittico nell’atletica?