Alquanto incomprensibile, oltre che molesta, ci è sembrata la noncuranza con cui alla Mostra di Venezia è stata accolto Opera senza autore di Henckel von Donnersmarck, già regista del capolavoro Le vite degli altri vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero nel 2007. C’entrano anche, va da sé, i 188 minuti di durata che hanno favorito l’uso e abuso di definizioni come polpettone, fumettone o feuilleton, ma non è detto che uno stile piano e un tono affabulatorio debbano per forza scadere nella pochezza delle fiction da prima serata tv: liberamente ispirata alla biografia del settantaseienne pittore tedesco Gerhard Richter, infatti, la cavalcata attraverso i periodi cruciali della storia patria nel secolo breve riesce a utilizzare l’evoluzione psicologica dei personaggi per fare emergere con onestà sentimentale e perspicacia concettuale alcuni dilemmi, risaputi ma certo non risolti, sul significato universale dell’arte e sui livelli di resistenza, camuffamento o collaborazionismo che per non soccombere il talento può concedersi.
Si parte da Dresda dove, alla fine degli anni Trenta, il giovane Kurt nutre una forte passione nei confronti della zia sensuale, disinibita e fragile che viene affidata in un ospedale psichiatrico alle perfide cure dell’eminente professore Seeband, ligio alle campagne eugenetiche lanciate del nazismo. Cresciuto dopo la catastrofe bellica nell’atmosfera non meno plumbea della DDR, il ragazzo piega le proprie predilezioni per l’arte ritenuta “degenerata” dal regime alle direttive del realismo socialista fino a quando l’amore con la tenera Ellie, che è figlia proprio dello spietato Seeband riciclatosi filosovietico, non lo indurrà a confrontarsi con i fantasmi del passato rimosso e le dure scelte connaturate al piacere e il potere della libertà.
Si capisce subito come la magmatica materia rischia a ogni svolta della trama di tracimare dal dramma al melodramma, ma nello stesso tempo che il regista non cerca di scimmiottare la serie “Heimat” del venerato Reisz: al contrario del connazionale, autore comunicato e corretto, Donnersmarck bada al sodo, punta forte sulle recitazioni d’alto e costante livello, non disdegna passaggi didascalici nonché picchi spregiudicati, struggenti, toccanti e in ultima analisi non si fa imbrigliare da qualsivoglia principio politicamente cerchiobottista nel comporre il suo j’accuse contro i totalitarismi. Alla critica e anche a qualche cineclubista attardatisi a insistere sulla natura troppo romanzesca di questo avvincente excursus di storia tedesca, sarebbe opportuno segnalare l’abilità con cui i postulati puramente teorici del realismo e l’astrattismo –che incarnano anche il perno metaforico delle vibranti contrapposizioni tra i personaggi principali- vengono trapiantati nella puntuale alternanza dei registri narrativi con le variazioni di gamma della fotografia di Caleb Deschanel.