«Noi diventiamo ciò che vediamo. Diamo forma ai nostri strumenti e poi i nostri strumenti danno forma a noi». Quando si affronta l’analisi del contenuto di un determinato medium è angolare affidarsi al pioniere degli studi sui variegati strumenti di “rivoluzione” di massa, che introiettano automaticamente il messaggio di chi se ne serve: Marshall McLuhan. La televisione – medium glaciale, che ha bisogno di una partecipazione capitale per poter agire in maniera invasiva – è stata corteggiata e poi stuprata dai social media e dal web, venendo addirittura ammanettata dalle app per smartphone e dai sistemi digitali on demand, che creano un riciclo continuo dei suoi contenuti.
Un fronte comunicativo ibrido confezionato con un intento schizofrenico: il plusvalore galoppante. Rupert Murdoch sostiene che «il denaro non riuscirà mai a ripagarci per ciò che noi facciamo per lui»; parole precise che squarciano la copertura di lino attorcigliata sull’offerta televisiva privata.
È ritornata con un’irruenza barbarica l’era dei reality show. Sembravano superati, causa talent come funghi, talk polemicamente aggressivi e youtubers trash che hanno portato l’ascoltatore medio a battere costantemente web e social network. Gli autori dei più efferati reality italiani hanno individuato una linea di lavoro precisa, che in pochissimo tempo è risultata vincente: affianco alle classiche strisce giornaliere distribuite sulle varie reti del gruppo, ecco contenuti extra e “imperdibili” sulle differenti piattaforme social e sulle app dei cellulari, in modo da non dare nessuna tregua all’ascoltatore. E poi durante tutta la settimana l’apertura del tele e social voto, che dà quel senso di partecipazione orrenda a ogni cittadino show-militante. Egli è sempre pronto, ogni settimana, a sfogare tutte le proprie frustrazioni giornaliere nella serata di gala in cui si taglia la testa di uno dei concorrenti, osservando polemiche sensibili di ogni genere. Il fruitore entra a piedi nudi nel medium ibrido e come per magia non esce più, poiché la coercizione tribale dei contenuti, estremamente mediocre, ma intensissima nel suo tan tan, gli porta indicibile assuefazione.
La strategia vincente delle case di produzione in questione porta al centro del villaggio globale il vip (o presunto tale), che si ritrova ad essere il primattore del patibolo talvolta affianco a dei perfetti sconosciuti presi dalla mondanità nazionale. L’obiettivo è sempre lo stesso: riversare i suoi veri sentimenti (?) in mainstream: problemi di vita, voglia di cazzotti, lacrime, tresche.
La stagione televisiva di Canale 5 è cominciata a settembre 2017, momento catartico della partenza del primo carrozzone goliardico: il Grande Fratello Vip. Importante bacino di selezione di concorrenti nel reality sono stati i programmi di Barbara D’Urso, Pomeriggio 5 e Domenica Live, e le passerelle erotico-sentimentali di Maria De Filippi, Uomini e donne giovani e senior.
In pieno inverno, alla fine del Big Brother famoso il testimone è passato all’Isola dei famosi, che ha inaugurato il 2018 dei reality esibendo diatribe violente e prive di fondamenti logici che hanno addirittura contagiato programmi tendenzialmente seri come Striscia la notizia e Le Iene, programma che credono di essere anti-sistema.
Sembrava finita, invece no: il giorno dopo la fine dell’Isola dei famosi la coercizione tocca il suo punto più alto: il Grande Fratello classico, ma con una mescolanza di vip, gigolò, modelle e gente che non si filerebbe nessuno. Il mix perfetto, una differenziata trash-sociale. In pieno aprile arriva la terza freccia velenosa della faretra Mediaset, pronta a mettere il cappio al collo dell’ascoltatore medio, che non aspetta altro, da buon feticista del medium più dittatoriale. Quando terminerà la nuova Alcatraz dell’industria culturale italiana, toccherà a un altro reality ormonale esaurire la stretta funzionale sulle sinapsi dell’individuo rimbambito: Temptation Island, prodotto che calza su misura ai figli di Maria allattati in Uomini e donne. Alla fine dell’estate, dopo un agosto feriale in cui spadroneggeranno i gossip dei social e delle rivistine eccitanti, si ricomincerà da capo: una coercizione che porta milioni di assuefatti, a braccetto con un plusvalore del quale le pubblicità diventano partner determinanti, non può che puntare al ciclo infinito della propria esistenza.
Jürgen Habermas sostiene fermamente che «quando trionfa la razionalità strumentale, si seppellisce sotto di sé ogni senso». Vallo a spiegare agli imperatori delle mode di consumo, delle TV capitaliste e dell’apparenza che fagocita i contenuti di valore. Silvio Berlusconi, in merito a questa osservazione, risponderebbe così, dall’altro della sua angusta nonchalance: «Io ho sempre pensato con Erasmo da Rotterdam che le cose più grandi nella vita e nella storia, siano sempre frutto non della ragione, ma di una sana, lungimirante, visionaria follia».
Che bella questa nuova forma di medium ultra-contemporaneo, che non ti lascia scampo, che è sempre con te e che mira a penetrare completamente dentro di te. Questa è già estensione del tuo corpo, caro lettore, gli manca soltanto di impadronirsi delle vene fino ad arrivare al cuore. Per raggiungere il midollo si sta già attrezzando. Converrebbe spegnere la TV e togliere la connessione dati dalla propria black-box. È necessario farlo – una volta tanto – per sfuggire pochi istanti alle coercizioni dominanti, ascoltando il consiglio di uno dei più grandi pensatori poetici del Novecento: Emil Cioran.
«Dubitare delle cose non è niente; ma nutrire dei dubbi su se stessi, questo si chiama soffrire. È soltanto allora che, attraverso lo scetticismo, si raggiunge la vertigine».