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‘Paterson’: quel dono di uno sguardo particolare sul mondo secondo Jarmusch

Paterson, New Jersey: Paterson si sveglia tutte le mattine tra le 6 e 10 e le 6 e 30, abbracciato alla moglie, nel letto che abbandona metodicamente per recarsi al lavoro; guida l’autobus n. 23 “Paterson“. Il surreale protagonista di una noiosa vita di cittadina ne porta lo stesso identico nome, Paterson. A ben pensarci, umoristicamente, il regista Jim Jarmusch ha scelto Adam Driver per guidare questo suo film del 2017: “driver” in inglese significa “colui che guida”. A connotare la quotidianità scandita dagli stessi ritmi e dalle stesse cose che si ripetono uguali a se stesse, anche il collega di origini indiane che immancabilmente ogni mattina si lamenta per qualcosa; la moglie, o il gatto col diabete o un fastidioso prurito alla schiena. Ma al suo “come va”? Paterson risponde sempre nella stessa maniera “Io? Tutto bene”.

Ma l’animo di Paterson non è così ordinario come potrebbe sembrare. Lui è nato nella città che ha dato i natali al poeta Williams Carlos Williams, e in cui crebbe Allen Ginsberg, insieme a molti altri, e come se ne sentisse l’influsso nell’aria, compone poesia. Ogni momento è buono, in autobus, nello scantinato di casa, mentre cammina o mentre osserva la cascata della cittadina, mentre sulle acque che scendono i caratteri del suo notebook segreto ne scandiscono il ritmo poetico.

Tutto per Paterson è poesia: ognuno crea, e che altro vuol dire “poesia” in greco se non “creazione”?
La creazione trasforma, e la poesia delle piccole cose diventa magia. La quotidianità non è più una gabbia da cui fuggire, sembra suggerire Jarmusch, ma nel vivere ogni piccolo dettaglio come straordinario e unico, il sogno può essere tradotto in realtà, come una semplice scatola di fiammiferi con la scritta che ricorda un megafono. La moglie di Paterson, interpretata da una dolce e bellissima Golshifteh Farahani –“About Elly” (2009), “Pollo alle prugne” (2011), “Come pietra paziente”, quest’ultimo diretto dallo scrittore Atiq Rahimi-, è anch’essa una creatrice instancabile, che utilizza il bianco e nero in modo poetico: sulle tende, sui tappeti, perfino per realizzare dei personalissimi cupcakes. A rallegrare le giornate dell’eccentrica coppia il cane bulldog Marwin, che si esprime a grugniti e fa qualche scherzetto. Proprio Marwin è il fedele compagno delle serate al bar di Paterson, dove alcune vicende tra cittadini prendono forma, come nelle conversazioni ascoltate a bordo del n. 23.

Le persone e le cose della vita si mescolano in unica dimensione, quella della poesia, come in una piccola rivoluzione interna, ma non alla Ginsberg ai tempi della beat generation, che scriveva in “Urlo” : “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate“ (…), descrivendone l’inquietudine del vivere.

Non ci sono più i poeti maledetti, non qui nello scorrere lento di Paterson, New Jersey. La trasformazione della scrittura nel creare immagini si fa in modo più intimo, anche se non per questo in modo meno radicale. Paterson con la sua calma esteriore e la continua positività in ogni situazione può essere un Candido “voltairiano” di stampo contemporaneo con un’anima creatrice, senza essere irrequieto. Ciò che vive ogni giorno gli basta, perché l’inesauribile fonte di rinnovato stupore sta nel suo vedere la vita come una splendida magia. E ha scoperto che essere felice per le piccole cose non è un limite.

Cose e parole dialogano in Paterson, un film costruito sulla figura dell’anafora e che non ci racconta di un genio incompreso, ma della poesia che ha il potere di cambiare ogni cosa, perché è il dono di uno sguardo particolare sul mondo.

“I poeti sono dannati ma non son ciechi, vedono gli occhi degli angeli”

 

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